Paolo Cognetti voce del disagio giovanile

Ha all'attivo numerose pubblicazioni e svariati premi. Lo hanno deinito un attento narratore delle giovani generazioni e dei difficili anni dell'adolescenza. Sogni e speranze di questo scrittore milanese
Paolo Cognetti foto di Fabio Artese

Ha trentacinque anni appena, Paolo Cognetti. È nato a Milano, dove si è diplomato in sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema, con l'amico Giorgio Carella ha fondato una casa di produzione indipendente, Cameracar, dove per una decina d’anni ha realizzato documentari a carattere sociale, politico e letterario. Nel 2004 l’esordio come narratore con “La qualità dell’aria”, poi due raccolte di racconti: “Manuale per ragazze di successo” e “Una cosa piccola che sta per esplodere” e un romanzo, “Sofia si veste sempre di nero”, tutti usciti per Minimum Fax e vincitori di numerosi premi. E ancora: New York è una finestra senza tende, viaggio intimo e letterario per le strade di Gotham. Nel 2009 ha vinto il premio Lo Straniero, riconoscimento attribuito dalla rivista “Lo Straniero” diretta da Goffredo Fofi ad artisti, saggisti, operatori, iniziative culturali e sociali di particolare spessore e generosità, con la seguente motivazione: «Paolo Cognetti, milanese, è tra i giovani scrittori italiani uno dei più attenti a sentire e narrare il disagio delle nuove generazioni e gli anni difficili dell’adolescenza di questi anni, di fronte a un contesto di incerta sostanza e di sicurezza precaria. È anche autore di documentari e inchieste sulla giovane letteratura statunitense, ma sono le sue raccolte di racconti ad aver convinto del suo talento e del suo rigore, e della sua moralità di scrittore vero». Ed è proprio vero: Paolo è così… Ha una facilità di raccontare che sorprende. È attento a ogni particolare, la sua sensibilità non è comune. Schietto, preciso, linguaggio giovane e profondo. Insomma ogni libro che apri per iniziare a leggere, lo posi sul comodino solo a fine lettura: non riesci a interrompere prima, perché quasi sei costretto, vuoi arrivare subito alla fine.

Paolo Cognetti, enfant prodige della letteratura italiana giovane?
«A trentacinque anni? Non sono un po' troppi? Alla mia età Dante si perdeva nella selva oscura, Flaubert scriveva Madame Bovary, Hemingway e Fitzgerald avevano ormai alle spalle i loro libri migliori… A parte gli scherzi, credo che la giovinezza sia un'ossessione dei nostri tempi e io preferirei non fosse mai diventata una categoria letteraria. Un libro è buono oppure no, che uno l'abbia scritto a vent'anni o a settanta. E ti dirò che comincio ad arrabbiarmi quando mi danno del "giovane autore promettente": ho esordito ormai una decina d'anni fa e sono un uomo adulto, vorrei che le mie cose fossero giudicate per quello che valgono».

Ti abbiamo raggiunto nella "tua" baita a oltre duemila metri d’altezza. Cosa significa per te questo rifugio?
«In realtà adesso sono ancora più in alto, in un rifugio a 2.500 metri dove, in questo momento, siamo solo in due. Fuori diluvia, non posso andare a camminare e quindi me ne sto qui davanti alla stufa accesa, a leggere, scrivere e anche a rispondere alle tue domande. La montagna per me significa tante cose, tra cui l'infanzia, il rapporto con mio padre, la libertà, il risveglio del corpo, la possibilità di rapporti onesti, ma potrei dire semplicemente che è il luogo in cui sto bene, il mio mondo. Non riesco a immaginare una vita passata lontano dal posto in cui ti senti felice, sarebbe un infinito esilio».

Da qui viene “Il ragazzo selvatico” ultimo libro uscito nel 2013. Cosa è significato scrivere questo testo?
«Dopo avere scritto sempre e solo narrativa, con questo libro ho abbandonato la finzione per dire "io", e parlare di un'esperienza vissuta in prima persona. Non l'ho fatto molto volentieri. Preferisco scrivere storie e inventare personaggi, dove mi sento del tutto libero di dire la verità. Invece l'autobiografia è fatta di veli, segreti mai rivelati fino in fondo, molto pudore e anche qualche bugia. Ma mentre vivevo il mio eremitaggio, poterne scrivere mi ha aiutato molto a sopportare la solitudine, e ad affinare lo sguardo, l'udito, il pensiero. Questa per me è la funzione più importante della scrittura: mi fa sentire meno solo, e mi aiuta a pensare meglio alle cose. "Il ragazzo selvatico" è il frutto di questa concentrazione».

Leggendoti, viene fuori la tua vita, ricchissima di esperienze. Ma chi è davvero Paolo Cognetti?
«Uno che su questa domanda, "chi sono davvero?", ci riflette fin troppo, perché la scrittura gravita tutta lì intorno. E a me non è che piaccia tanto la persona che sono, se fossi un altro mi terrei decisamente alla larga da me. Allora dopo un po' succede che uno ha nausea di essere sé stesso e pure di pensarci tutto il tempo, e preferirebbe studiare i fiumi e gli alberi, fare un lavoro con le mani, innamorarsi che è sempre un bellissimo modo di uscire da sé e pensare a qualcun altro, e per fortuna ogni tanto queste cose succedono anche a me».

Che mondo vorresti, cosa sogni per il tuo futuro?
«La prima è una strana domanda da fare a uno che se n’è andato a stare in una baita di montagna. Non mi piace il modo in cui l’umanità convive, le forme in cui si è organizzata: possiamo anche chiamarle democrazie, ma sono sistemi di potere fondati sulla violenza, da una parte, e sulla sottomissione dall'altra, pure dove la violenza si esercita senza armi da fuoco e la sottomissione ha la pancia piena. Detesto i potenti di tutti i tipi, anche quelli più piccoli che esercitano potere in ufficio o nella famiglia o nella coppia, e dall'altra parte il conformismo, che è una resa di massa: dove tutti dicono la stessa cosa, desiderano la stessa cosa, si arrabbiano tutti insieme, cantano tutti insieme. Però guardando il bestiame in montagna ho cominciato a pensare che forse l'uomo è fatto così: sta bene quando si affolla sotto la guida di qualcuno, così non si sente solo e non deve decidere niente, basta che ci sia da pascolare. Ecco, se è così io preferisco starne fuori: a costo di soffrire di solitudine e andare a cercarmi qualche filo d'erba tra i sassi. Ho anche la fortuna di poterlo fare: non ho figli nè altre persone a cui badare. Non ho malattie. Non sono vecchio. Così rispondo anche alla seconda domanda: riuscire a vivere più libero che posso, e scrivere ancora qualche libro».

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