Paolo, apostolo libero
In mezzo alle sue personali difficoltà e contraddizioni, Paolo ha esemplificato la vita di un cristiano. In un certo senso la sua vocazione è stata quella di essere un modello per gli altri ed egli ne fu cosciente: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11, 1; cf. 1 Cor 4, 16; Fil 3, 17; 1 Tes 1, 6). Capire dunque qualcosa della sua vocazione, è capire come possiamo vivere noi, secoli dopo.
La vita nuova in Cristo
Certo, Paolo era un apostolo e noi non siamo come lui! Però, ciò che lui raccomandava alle comunità cristiane da lui fondate, nasceva dalla sua stessa vita che si esprimeva poi nel suo apostolato. Ed è questa realtà che possiamo applicare a noi.
Che cosa costituiva il cuore della sua vocazione? Ovvio: l’annuncio di Cristo. E tutti i cristiani almeno in questo sono chiamati ad essere suoi imitatori: essere testimoni della vita nuova, scoperta attraverso l’incontro con Gesù vivo, Gesù risorto. Siamo così condotti ad un livello più profondo: la vita nuova in Cristo. L’annuncio non vale nulla senza questa realtà. Perciò è necessario affermare che il cuore della vocazione di Paolo, e quindi di ogni cristiano, non è tanto l’annuncio, ma la vita. L’annuncio viene dopo, come spiegazione e applicazione della vita.
Infatti Paolo ha sempre messo un’enfasi molto forte sulla reale novità della vita generata da Gesù: “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma la nuova creazione” (Gal 6, 15), “… se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove” (2 Cor 5, 17).
Un uomo nuovo
Questa novità ha un ruolo centrale nel suo pensiero. Essa è la manifestazione nella sua predicazione della rottura e del cambiamento radicale che lui stesso ha subito sulla strada di Damasco e, dopo, con la conversione ed il battesimo (cf. At 9, 1-19; 22, 6-16). Come apostolo, Paolo predicava ciò che aveva vissuto. E qui si può cogliere la sua originalità: nel suo vissuto si esprime un modo nuovo di essere dell’uomo, un nuovo tipo di umanità che esiste solo in base alla realtà inaugurata da Cristo.
In primo luogo, l’uomo nuovo vive in maniera solidale secondo due direzioni: verso Dio e verso gli uomini. Si è introdotti all’unità con Dio e con gli altri in un modo mai prima conosciuto, perché si entra in una condizione trasformante. Secondo Paolo, nell’umanità ci sono due solidarietà, due “unità” degli uomini tra di loro, una con Adamo e l’altra con Gesù (che è il nuovo Adamo): “e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1 Cor 15, 22). Per cui “in Cristo” un essere umano, essendo ora una nuova creatura e perciò puro, rinato, santo (cf. 1 Cor 1, 2; 4, 15; 2 Cor 11, 2-3), gusta l’amore di Dio, perché sperimenta la redenzione (cf. Rm 3, 24; 8, 39).
Ma la nuova vita non è mai vissuta da soli. Consistendo in una nuova solidarietà in e con Cristo, essa pone le persone in una relazione retta, di piena riconciliazione con Dio e con gli altri. L’essere santi è la condizione di tutti quelli che entrano “in Cristo”, nei quali, attraverso Gesù e in unità con lui, Dio opera una trasformazione: “Nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30-31).
La conseguenza chiara di questo evento è il riconoscimento da parte di Paolo nella vita cristiana di una vocazione a diventare ciò che, magari in modo limitato ed embrionico, già si è. Non tanto una chiamata a raggiungere un lontano punto di arrivo, ad una ascesi che a poco a poco produrebbe un cambiamento. Per questo egli esorta i cristiani a camminare nella vita nuova che già sperimentano per grazia (Rm 6, 12-23) e dichiara che lui, insieme agli altri, si trova in un processo di progressiva e sempre maggiore conformazione all’immagine del Cristo: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3, 18)1.
Il corpo di Cristo
Il cuore della sua vocazione, dunque, come di ogni cristiano, è ben espresso dall’immagine del corpo di Cristo. Occorre però capire che cosa intenda Paolo con tale espressione. Nella letteratura paolina questa espressione si trova in due sensi: il primo è una semplice identificazione dei battezzati con Cristo (Rm 12, 4-5; 1 Cor 12, 12-27; Col 1, 24; cf. Ef 2, 16; 3, 6; 4, 12); il secondo – apparentemente come uno sviluppo di questo primo significato – in riferimento a Cristo quale capo del suo corpo, la Chiesa (Col 1, 13-20; cf. Ef 5, 23).
Basilare è il pensiero più primitivo, quello dell’identificazione. E ciò è molto significativo, perché questo significato ha le sue radici nel pensiero semitico, in cui il termine “corpo” indicava la “persona”, la realtà di qualcuno. Dire che “i cristiani sono corpo di Cristo”, dunque, equivale a dire che insieme sono la persona, la realtà di Gesù, sono un tutt’uno con lui.
È la stessa realtà che Paolo afferma nella lettera ai Galati: “tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (3, 28), dove la parola “uno” (eis in greco) è un aggettivo nominativo maschile al singolare e quindi indica un “uno” che è la stessa persona di Gesù. Qui si vede non solo la vocazione del seguace di Cristo, ma l’esistenza di un modo nuovo di essere umano, dove le divisioni precedenti non esistono più: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno…” (ivi).
Si veda anche l’espressione della lettera agli Efesini “… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace” (2, 15), dove l’unità di questo “solo uomo nuovo” supera ogni divisione umana. Per Paolo quindi la sua vocazione personale, come quella di ogni cristiano, è fondamentalmente quella di essere il nuovo tipo di uomo che Dio ha generato attraverso la sua opera nella persona di Gesù.
Questa vocazione ha inoltre un fondamento sacramentale, eucaristico e battesimale. Paolo afferma che si è uno perché si condivide la stessa eucaristia. È la comunione con il corpo e sangue di Cristo che fa diventare corpo di Cristo (1 Cor 10, 16-17). Questo è anche il frutto del battesimo: “poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 27; cf. Rm 6, 3-11). I due sacramenti introducono il singolo in una realtà comunitaria che è un nuovo tipo di socialità, dove regnano pace, giustizia e tutte le virtù. Si tratta in fondo dell’apertura del regno dei cieli agli uomini della terra, il divino partecipato all’umano. Non c’è nulla di meramente teorico, dunque, nella visione di Paolo. I sacramenti sono concreti e introducono chi ne partecipa in una vita concreta.
Persona in comunione
Ed è in questa concretezza che si colloca la vocazione specifica di ciascuno all’interno della vocazione comune, inclusa la sua come apostolo. Qui troviamo la portata specifica dell’uso che lui fa dell’immagine del corpo. Essere tutti membra, ma ognuno con un ruolo diverso, vuol dire che ciascuno deve servire gli altri, perché tutti sono ed esistono gli uni per gli altri.
È l’unità nella distinzione: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12, 4-5). E Paolo, guardando la vita della comunità come il compimento della legge (Rm 13, 8.10; Gal 5, 14), giunge alla logica conclusione di questo modo di pensare, vedendo nell’amore reciproco la realtà fondamentale da vivere.
È l’amore di una persona in comunione con altre, e non quello del singolo virtuoso e generoso, ad essere il contesto del suo famoso inno alla carità in 1 Cor 13. Come dice subito prima: “Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue… Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte…” (1 Cor 12, 27-28.31).
Crocifissi per gli altri
Ma c’è di più. Paolo pensava la vocazione sua di apostolo come quella di ciascun cristiano in rapporto con la croce, e più specificamente con il Crocifisso. Questo è il cuore del Vangelo da lui annunciato: “Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1 Cor 2, 2). Ognuno è battezzato nella morte di Cristo e di conseguenza deve vivere da “morto”, cioè, “morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6, 11).
Essere “morti viventi” per amore di Dio, diventa un essere crocifissi per gli altri, dando tutto per amore, come viene espresso nell’inno kenotico in Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (2, 5-8).
L’etica cristiana diventa così un’etica di servizio radicale, dove tutto è dato per l’altro, assumendo i suoi interessi come i propri. Lo si vede nelle istruzioni che Paolo dà in merito alla questione del mangiare le carni immolate agli idoli. Non mangiare tali carni davanti a chi si scandalizzerebbe, per rispetto verso la sua coscienza, è una carità raffinata, capace di perdere anche l’aver ragione, perché il bene dell’altro è preso veramente come il bene proprio (cf. 1 Cor 8).
La regola della carità, che spinge fino all’estremo di essere crocifisso per l’altro, diventa, perciò, libertà definita dall’esigenza di amare: “Tutto è lecito! Ma non tutto è utile! Tutto è lecito! Ma non tutto edifica” (1 Cor 10, 23).
Nella sua vita di apostolo, Paolo è un esempio plastico dell’essere crocifisso per gli altri in unione con Cristo. Egli ha sofferto molto per la sua predicazione: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità” (2 Cor 11, 24-27).
Libertà e reciprocità
Paolo, però, vede tutte queste sofferenze come una partecipazione ai patimenti del Crocifisso “a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). Il modo di essere persona in comunione, che egli vive in modo esemplare, dunque, è radicato nel rivivere in se stessi il sacrificio di Gesù in croce.
Paolo spiega di essere debole, “un vaso di creta”, ma che i suoi dolori fanno crescere in lui la vita di Cristo: “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2 Cor 4, 8-10).
E “morte” e “vita” non sono finalizzate a se stesse perché, attraverso la partecipazione alla morte di Gesù, Paolo dà vita alla comunità: “Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita” (2 Cor 4, 12). Si potrebbe dire che Paolo, come Gesù in croce, si annulla per gli altri.
Questa morte che è vita, infatti, è il significato profondo della famosa dichiarazione: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20a). Essa costituisce nello stesso tempo l’affermazione del cuore della sua vita da apostolo, l’identità nuova di ogni seguace di Gesù, la definizione radicale della persona nuova che è il fine dell’opera in terra compiuta da Gesù e annunciata da Paolo: il modo di essere persone-in-comunione nell’essere Cristo assieme agli altri.
Ed è qui che si vede quale sia la libertà portata dalla fede. Subito dopo l’espressione “Cristo vive in me”, Paolo afferma che “questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20b). È attraverso la fede che si è introdotti a tale tesoro. La fede è come una porta che si apre su un mondo nuovo nel quale si vive, sempre per la fede, la vita di Cristo che è il continuo annullamento di sé nell’amore, soprattutto all’interno della reciprocità della comunità.
Lutero e Paolo
A questa duplice realtà dell’annullamento e della reciprocità non è stata data grande enfasi nella tradizione cristiana, sebbene, come abbiamo visto finora, sia fondamentale nel pensiero di Paolo. Nei secoli precedenti è stato messo in rilievo, e con maggior intensità dopo Lutero, come il singolo entri in questa vita. I vari dibattiti sulla giustificazione, ora in gran parte risolti2, erano incentrati sulla comprensione di come “funzionasse” la grazia di Dio, mediante l’azione salvifica di Cristo, nella liberazione dell’umanità dai suoi peccati.
Il pensiero di Lutero ha avuto un’influenza profonda su tutte le Chiese che sono nate o cambiate in modo significativo dalla Riforma, sebbene non esista in esse un’unica teologia della giustificazione. È opportuno notare, però, quanto serve per sottolineare un elemento basilare nel pensiero di Paolo sulla vocazione cristiana. Per lui, come anche Lutero ha affermato seguendo Paolo, l’essere giustificato da Dio era un’esperienza di libertà, radicata nell’iniziativa gratuita di Dio verso chi non lo merita: liberato dai peccati3 e dalla vecchia umanità per entrare in una vita di amore in una nuova umanità. Dio in Cristo opera una vera trasformazione: “Liberati dal peccato, siete diventati servi della giustizia” (Rm 6, 18).
Servo di tutti
Questa vita libera porta paradossalmente ad una nuova obbedienza, alla “schiavitù” di vivere per Dio, che concretamente vuole dire essere al servizio degli altri. La vocazione apostolica di Paolo rappresenta un modello vivo di questo passaggio. Egli sposta tutto di sé per entrare in rapporto con ciascuno: “Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero” (1 Cor 9, 19). Paolo si fa giudeo con i giudei, come uno che è senza legge con coloro che non hanno legge, debole con i deboli, tutto a tutti “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9, 22).
Appare chiaramente come nella sua vocazione specifica di apostolo Paolo indichi la sostanza della vocazione del cristiano. È un modo di essere, un non-essere nell’amore, che si può vivere con tutti alla stessa misura e non solo all’interno della comunità cristiana. Quando, conquistato da questo amore, l’altro entra a far parte della comunità, l’amore estremo – sullo stile Gesù, per così dire – diventa gioco forza reciproco.
Nella dinamica dell’amore, si vede poi quanto l’altro, proprio nel suo essere altro, sia importante. Se si vive l’ascetica di cambiare se stessi in relazione all’altro, si acquista un rispetto enorme verso l’altro, proprio nella sua diversità. Questo rispetto diventa successivamente la base di un apertura dialogica: in Paolo si tratta di un “annuncio rispettoso” che tiene conto della specificità dell’altro4.
NOTE
1 Per una discussione su come l’essere già santi si pone in rapporto con il diventare santi vedi G. Rossè, La spiritualità ‘collettiva’ di Chiara Lubich nella luce di Paolo in Nuova Umanità 5 (1996) 535-543.
2 Vedi la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione tra la Chiesa Cattolico-Romana e la Federazione Luterana Mondiale, 1999.
3 Rm 6, 7; 7, 6.24-25; 8, 2. 21; 18, 20-22; 1 Cor 7, 21-22; 9, 19; 2 Cor 1, 10; Gal 5, 1; cf. 2 Cor 3, 17.
4 Nell’Areopago di Atene Paolo presenta il suo discorso in base alle cose note ai suoi interlocutori e che egli riconosce come positive (cf. At 17, 16-31).