Pane olio e sale

Cucinare: un gesto di cultura, lode, amore e ricordo.
Pane e olio

Lo diceva Virginia Woolf: «Non si può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non si è mangiato bene». Mi metto una mano sulla coscienza, scrivendo questo articolo che vuole essere un inno alla cucina. Perché il privilegio di godere della cucina, come di tante altre piacevolezze, è precluso a molti.

 

Un miliardo di persone al mondo soffre la fame e anche nei Paesi occidentali negli ultimi anni sono aumentate drasticamente le persone denutrite. Ma cantare le glorie della cucina non significa esaltare l’abbondanza smisurata delle portate, l’ingordigia sfrenata, l’estrema raffinatezza o le costosissime prelibatezze. Tanti dei piatti più gustosi sono nati arrangiandosi in periodi di povertà e di restrizioni.

 

La cucina ebraica, ad esempio, ha saputo creare cibi eccellenti nonostante le rigide regole alimentari e il divieto di cucinare di sabato. Inoltre non ci vuole nulla a dare anche al desco più modesto un aspetto di elegante gaiezza.

A volte, per creare il miracolo d’una tavola accogliente è sufficiente una tovaglia col bordo colorato, un cestino col pane appoggiato su un bel tovagliolo, l’armonia del pur modesto vasellame. Anche semplici ravanelli e prosaici cetrioli, affettati curando l’armonia delle forme e dei colori, possono competere con un piatto di ostriche. Esaltare la cucina non significa quindi inneggiare alla golosità, ma cantare le glorie d’un gesto umano che è cultura, lode, amore e ricordo.

 

La cucina è cultura perché tramanda tradizioni. Le ricette, anche le meno ambiziose della cosiddetta cucina povera, costituiscono un inestimabile patrimonio culturale per ogni Paese: s’inerpicano in percorsi storici che riportano alle origini, agli antenati, alla propria terra, alle proprie coltivazioni, ai propri singolari modi di cacciare e pescare.

 

In un libro incantevole, Un filo d’olio (Sellerio), Simonetta Agnello Hornby ripercorre, attraverso le ricette di nonna Maria annotate in un quadernetto, uno spaccato di vita siciliana. Esempio di cucina che si fa cultura.

Cucinare è anche un gesto di lode. Lode alla creazione. Abbinare con sapienza i prodotti della terra, dosare il fuoco su carni d’animali e pesci, è rispondere alla benedizione del creatore a Noè: «Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe».

 

Poi ancora: cucinare è un gesto d’amore, perché quando si cucina si è ben coscienti di preparare qualcosa che delizierà fisico e spirito di persone che si amano. L’attenzione alla ricetta, alla preparazione degli ingredienti, alle proporzioni, il misurato ma indispensabile sfogo alla creatività, la cura nella presentazione: è tutto amore che s’immette tra pentole e mestoli e che trionfa sulla tavola.

 

Il locale della cucina diventa così l’anima della casa. È a tavola infatti che spesso si rafforzano i legami. È mentre si cucina che ci si unisce in intime confidenze. Ricordo i momenti preziosi passati tra i fornelli con mia mamma. Le interminabili chiacchierate mentre lei arrotolava gnocchi, tagliava melanzane o impanava fiori di zucchine.

 

Una volta friggeva frittelle di mele e senza guardare le posava di fianco a sé su un piatto: mentre l’ascoltavo rapito, io mangiavo una dopo l’altra quelle squisitezze ancora calde. Poi s’è voltata, e non ce n’era più neanche una. Non è finita bene quella volta, ma in cucina ci sta anche quello. Di quel fatto a casa nostra ne abbiamo poi riso parecchio.

Infine, cucinare è un gesto che genera e suscita ricordi. I gusti più semplici, assaporati nell’infanzia, sono quelli che rimangono impressi nella memoria. Per tutta la vita ricerchiamo i gusti della cucina della mamma e della nonna. Nel delicato cartone animato Ratatouille, il temibile critico gastronomico s’intenerisce di fronte a un piatto che gli ricorda la cucina della nonna.

 

Il mio ricordo è una fetta di pane su cui si versava corposo olio d’oliva e si spargeva un po’ di sale. Me lo preparava Nino, un amico a cui i genitori m’avevano affidato per una settimana mentre erano via. Nino abitava in un focolare. Da allora quel ricordo squisito, poetico – pane olio e sale – è legato in me all’altrettanto indimenticabile ricordo dei giorni passati in quel luogo speciale. Ma ognuno avrà il proprio, di ricordo. Quel gusto, quel cibo indimenticabile che racchiude in sé, come in uno scrigno, la dolcezza dell’infanzia.

 

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