Pandora Papers, funzione pubblica e moralità
Che i politici in America Latina non godano di buona reputazione lo dice la caduta in picchiata della fiducia nei loro confronti da parte dell’opinione pubblica. Questo clima di sfiducia, che nei confronti delle istituzioni pubbliche non è mai stata eccessiva, sta generando anche una sorta di circolo vizioso: da una parte, lo scontento nei confronti dei politici sposta le preferenze elettorali su outsider, spesso imprenditori “di successo” che, puntualmente, deludono l’elettorato allo stesso modo dei politici “di carriera”.
Lo scandalo dei Pandora Papers ha dato un’ulteriore mazzata alla fiducia generale nelle istituzioni. Ben tre presidenti in esercizio, in Cile, Ecuador e Repubblica Dominicana, ed 11 ex presidenti latinoamericani figurano tra le centinaia di potenti e ricchi che usano i paradisi fiscali in barba al dovere civico di trasparenza e di pagare le tasse.
L’ecuadoriano Guillermo Lasso sta dando spiegazioni in merito alla decina di società offshore dalle quali ha tratto benefici sia lui che alcuni famigliari. La legge ecuadoriana lo proibisce, ma la sua risposta è che oggi tali società sono state eliminate, e quando vi era coinvolto non aveva ancora funzioni pubbliche, pertanto il suo comportamento sarebbe stato legittimo. Nella Repubblica Dominicana la legge è meno esigente e nulla proibisce ad un presidente di costituire una offshore in un paradiso fiscale. Il presidente Luis Abinader difende la trasparenza del suo agire, la decina di società costituite a suo nome in paradisi fiscali fanno parte del suo patrimonio dichiarato pubblicamente, e gestito da un fondo di garanzia stabilito durante il suo mandato. Abinader ha giustificato l’esistenza di tali società con la mancanza di leggi adeguate nel suo Paese che non consentano di operare all’estero. Ma non ha fatto parola delle tasse che in questo modo non ha pagato.
Il caso più emblematico è quello del presidente cileno Sebastián Piñera. Il primo cittadino non è in grado di spiegare una curiosa coincidenza: nel 2010, durante il suo primo mandato, vendette per 152 milioni di dollari un progetto minerario, Dominga, ad un suo amico d’infanzia, già condannato per finanziamento illecito di partiti politici. Il progetto Dominga è sotto i riflettori dell’opinione pubblica da tempo: comprende una miniera a cielo aperto, una centrale per processare i minerali, un porto per la loro esportazione. Il problema è che il progetto mette a rischio un’area protetta tra le più ricche al mondo in quanto a biodiversità, l’unica dove si riproducono i pinguini di Humboldt, zona di passaggio delle balene.
La vendita si realizzò in quattro fasi: una in Cile, per 14 milioni di dollari, le altre – per 138 milioni di dollari complessivi – nelle Isole Vergini, un paradiso fiscale statunitense nei Caraibi. Il contratto stabilì che il pagamento sarebbe avvenuto in tre tranches, di cui l’ultima, quasi 10 milioni di dollari, sotto la condizione che il territorio dove si sarebbe sviluppato il progetto Dominga non sarebbe stato dichiarato area protetta. In realtà, il governo precedente aveva invece decretato la protezione di tale area, ma senza stabilirne il perimetro e lasciando tale compito al governo di Piñera, che per quattro anni ha lasciato senza effetti il decreto. Nel frattempo, però, il presidente ha negato il permesso di costruire nella stessa zona una centrale termoelettrica, dichiarando pubblicamente che la ratio di tale proibizione si doveva alla protezione di questa zona così ricca in biodiversità.
Siccome il progetto Dominga non è esente da critiche, anni addietro venne condotta un’indagine della procura che, nel 2017, prosciolse Piñera da ogni accusa, dato che non vennero riscontrati reati. Secondo Piñera si tratta quindi di cosa giudicata e fatti noti. E manifesta incredulità di fronte alle accuse di oggi. Ma ciò che non spiega è il resto della verità: non si spiega perché abbia proibito la centrale termoelettrica e anche il non avvio del progetto minerario; in secondo luogo, nella formula di proscioglimento non c’era notizia del contratto sottoscritto nelle Isole Vergini e nemmeno della clausola finale, che condizionava l’ultima quota al fatto che la zona non fosse dichiarata area protetta. Tali novità configurano fatti che giustificano la nuova indagine aperta dalla procura di fronte al sospetto di reato, almeno quello di concussione.
Fatto salvo il diritto alla presunzione di innocenza, di cui Piñera gode come chiunque altro, il presidente sta utilizzando in modo palesemente parziale la verità di fatti come il suo proscioglimento e l’esistenza di una sentenza, che non riguardano gli attuali nuovi elementi. In attesa di un verdetto, sul piano morale vi è un fatto innegabile: un presidente non può manipolare la verità. E c’è un’altra domanda sul piano morale: per quale ragione il presidente del Cile realizza i suoi affari in un paradiso fiscale evadendo così le tasse su un affare di ben 152 milioni di dollari? Quest’ultima questione, l’evasione fiscale, riguarda anche Lasso e Abinader. Sostenere che non si è violata la legge non è sufficiente: un politico, oltre ad essere onesto deve anche sembrare di esserlo.