Pandemia: riflessioni africane
La pandemia da Covid-19 ha cambiato il mondo. Le strategie finora utilizzate per governare sono state messe in discussione da un semplice interrogativo: «Cosa è essenziale?». La pandemia infatti ha costretto governi e autorità sanitarie ad offrire solo servizi di base, per cui la domanda è diventata: «Chi può definire se davvero quei servizi sono essenziali?». Le risposte sono state diverse da un continente all’altro, da un Paese all’altro, da una regione all’altra.
La difficoltà ci tocca anche a livello personale: in un momento di crisi globale, ognuno deve chiedersi cosa sia essenziale. Prima potevamo pensare che la risposta fosse una vacanza, una partita di calcio, una macchina, una casa, una visita ai parenti, oltre a cibo, acqua, lavoro, cure mediche. Ma oggi?
Se consideriamo che durante la pandemia la vita di tutta l’umanità era in qualche modo collegata, a livello politico questa domanda richiama il concetto di “partecipazione”. Nessuna istituzione può definire da sola i servizi essenziali: c’è bisogno di ascoltare, coinvolgere, condividere. È un appello forte, in un momento in cui nessuno ha un’idea chiara di cosa fare.
Un’altra domanda conseguente a quanto successo è: offrire solidarietà ha un prezzo, richiede di sacrificare qualcosa, siamo pronti? Cosa è sacrificabile a livello personale, come famiglia, come città, come nazione, per offrire una risposta solidale comune? Chi definisce i sacrifici da fare?
Ho fatto parte del comitato creato in Sud Sudan per la gestione umanitaria della crisi in atto in quel territorio, partecipando alla definizione dei servizi essenziali da garantire. Ogni membro del comitato leggeva la realtà secondo la sua provenienza, i suoi studi, la sua esperienza. Ma, come ha detto il coordinatore del team di 30 persone: «Ognuno di noi ha ragione, non c’è vero e sbagliato in quello che ognuno dice, eppure è obbligatorio scegliere solo quello che è essenziale e fattibile».
Era come se dicesse, in altre parole, che era necessario fidarsi dell’unità tra noi e del discernimento comune. Quello che mi ha colpito è stato vedere che anche in un team così composito si può trovare una direzione comune, ma solo se ognuno rinuncia a qualcosa per accogliere l’idea dell’altro. Per il bene degli uomini e delle donne che vogliamo servire.
È un tempo nuovo: «Non si tratta più di giudicare cosa sia giusto e cosa ingiusto, ma di scegliere l’essenziale in tutte le cose, con discernimento ed empatia».
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Le priorità sono altre
Descrivere Covid-19 in Africa come un killer è del tutto incongruo. Non è un killer come invece lo sono la malaria e il tifo. Alcuni africani pensano addirittura che Covid-19 non sia reale. 145 donne nigeriane muoiono di parto ogni giorno, più di quante moriranno mai di Covid-19. Le misure rigorose di lockdown per il Covid-19 non hanno senso in Africa. Qui la gente parla di morte a causa del “virus della fame”, piuttosto che del Covid-19.
Non posso considerare la pandemia di Covid-19 senza riflettere sulle altre grandi malattie del mondo. Esistono 17 malattie tropicali trascurate, descritte come una “pandemia cronica”, che colpiscono un sesto della popolazione mondiale (un miliardo di persone) principalmente nelle regioni tropicali e subtropicali. Queste persone sono chiamate il “miliardo inferiore”. La lebbra è una di queste.
Il controllo o l’eliminazione delle malattie tropicali trascurate darebbe un contributo proporzionalmente maggiore rispetto a qualsiasi altro investimento per combattere le malattie.
Se sul serio ci interessa aiutare i popoli e le loro sofferenze, dobbiamo eliminare la pandemia cronica. La mia speranza è che la ricerca medica, i produttori di farmaci, i finanziamenti e le risorse sanitarie siano guidati dal bisogno reale e distribuiti a tutti secondo necessità. La medicina non può agire da sola. La politica, la sociologia, l’economia e l’assistenza sanitaria, ispirate al bene comune, devono agire insieme.
Mabel Aghadiunho vive in Nigeria, dove lavora come medico