Pandemia, cosa ci dicono i dati sui vaccini anti Covid?
Analizzare i dati della pandemia in queste settimane richiede particolare uso di competenza e lucidità. Due caratteristiche che troppo spesso mancano alla discussione pubblica.
Per capire i dati sono necessari alcuni strumenti propri dell’epidemiologia e una conoscenza del funzionamento degli strumenti di prevenzione, il fondamento della disciplina igienistica.
Classicamente la prevenzione si distingue in primaria, quando impedisce ad un fattore nocivo per la salute di agire, secondaria, quando cerca di mitigare le conseguenze di un danno già in essere, ma in fase iniziale, (esempio classico è lo screening), e terziaria, quando prova a recuperare il danno che ormai si è creato (questa è la riabilitazione).
Per proteggersi dalle epidemie usiamo tutti questi strumenti, ma il principale è naturalmente quello della prevenzione primaria, che dobbiamo guardare nell’ottica della salute collettiva.
Le misure di profilassi primaria disponibili verso una malattia infettiva diffusiva sono tre:
- il distanziamento sociale (impedire fisicamente il contatto fra infetti e suscettibili);
- l’utilizzo di DPI (dispositivi di protezione individuali) e di sistemi di disinfezione personale/ambientale;
- la vaccinazione. Come per tutte le malattie infettive, la vaccinazione ha l’obbiettivo duplice di ridurre la suscettibilità degli individui al patogeno, e agisce con due affetti, in misura diversa a seconda del soggetto e del patogeno. Riduce la possibilità di infezione primaria, riduce la gravità degli esiti di infezione.
Una volta capiti gli strumenti a disposizione, per valutarne l’efficacia si deve capire prima cosa ci si aspetta che facciano, e quindi come il loro uso dovrebbe modificare l’andamento della malattia. Questo processo in sanità pubblica prende il nome di “valutazione dell’efficacia degli interventi di prevenzione primaria” e funziona così:
- se l’intervento ha l’obiettivo di bloccare la diffusione del patogeno (o del determinante negativo di salute) dopo la sua introduzione si riduce l’incidenza di malattia (ossia il numero di nuovi casi
- se l’intervento ha l’obiettivo di ridurre la gravità della malattia, mitigandone l’esito sul paziente, si riducono gli indicatori come ospedalizzazione e mortalità dovuta a quella malattia. Parlando di misure di prevenzione primaria, questo outcome è ovviamente possibile solo con la vaccinazione, mentre ovviamente è l’obiettivo principale delle misure terapeutiche.
Quindi, in sintesi: possiamo capire se il lockdown funziona perché guardiamo il numero di nuovi casi e vediamo che dopo l’introduzione delle restrizioni calano; nelle zone dove invece non si fa niente, la curva di incidenza rimane alta o addirittura cresce nel tempo.
Per capire se funziona il vaccino, ci aspettiamo che fra i vaccinati i casi si riducano rispetto ai non vaccinati, e inoltre che fra i vaccinati gli ammalati siano meno gravi, vadano meno in ospedale e muoiano di meno.
Questo in effetti è esattamente quello che succede, come si può vedere nelle tabelle accluse a questo articolo (che potete trovare sempre aggiornate qui:
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-sorveglianza-dati
Si fa confrontando i dati di infezione, ospedalizzazione, ricovero in area intensiva e morte fra popolazione vaccinata e non vaccinata, ovviamente mettendo a confronto le stesse fasce d’età essendo, come noto, l’età un fattore di rischio indipendente per questi stessi risultati rispetto alla malattia.
Sulla popolazione generale (che non è tutta vaccinata) questo effetto è tanto più visibile quanto più alta è la quota di persone immunizzate. E in effetti si vede perfettamente dall’andamento delle curve sui ricoveri da COVID, come si può osservare nello schema sottostante.
Fino a quando la popolazione non è stata resa in maggioranza non suscettibile, per tenere sotto controllo i ricoveri da COVID era necessario ricorrere a restrizioni molto dure e dal grave impatto sociale.
In questo periodo non ci sono restrizioni e i ricoveri per COVID sono circa 7 volte meno dello stesso periodo dell’anno scorso, al netto della drammatica differenza di possibilità di finire in ospedale fra vaccinati e non vaccinati. I casi (vedi grafico seguente) seguono una riduzione simile, un po’ meno marcata perché la vaccinazione, come si è detto, non impedisce al virus di raggiungere la persona, la rende solo molto più capace di resistere all’infezione e quindi di guarire rapidamente, infettare meno, avere sintomi più lievi. Inoltre, ovviamente un vaccinato appena contaminato se viene testato può risultare positivo e contribuire al numero di casi, anche se poi non si ammalerà.
Il confronto fra i mesi di novembre 2020 e novembre 2021 può fornire un colpo d’occhio interessante. Il tutto è riportato sottoforma di stime di efficacia vaccinale nella tabella 5 del rapporto dell’ISS da consultare in allegato.
L’evidenza sulla vaccinazione ci dice anche che la protezione richiede un richiamo, in genere fra i 6 e i 9 mesi (dipende dall’età e delle condizioni di patologia); questo è normale ed è dovuto al modo nel quale funziona il nostro sistema immunitario. Mantiene alta l’attenzione solo verso i patogeni che sono incontrati frequentemente (altrimenti sarebbe uno spreco di risorse) e ci vuole più di uno stimolo per “convincere” le cellule della memoria che valga la pena mantenere una risposta verso un determinato patogeno. È esattamente quel che succede con la maggior parte dei vaccini, che vengono somministrati più volte o addirittura ad intervalli regolari per tutta la vita.
Il vaccino dopo sei mesi perde di efficacia soprattutto nel proteggere dall’infezione, molto meno dagli esiti gravi di malattia (vedi tabella 6 allegata del rapporto dell’ISS).
Dunque, cosa c’è di strano e di particolare nel vaccino anti-covid e nella necessità di sottoporsi ad uno (o più) richiami periodici?
Niente. Conviene dunque concentrare la nostra attenzione sulle evidenze disponibili, basate sui dati provenienti dal mondo reale, e scegliere con fiducia e responsabilità di proteggersi.