Una panchina rossa a Vittoria
«C’è una cultura diffusa che induce al maschilismo. Più presente di quanto si pensi. Più vera di quanto ciascuno sia disposto ad ammettere». Siamo a Vittoria, popoloso centro dell’estremo sud siciliano.
Qui vive Rosa Perupato, un’insegnante che ha fatto del proprio impegno civile una ragione di vita. Ha fondato, dieci anni fa, l’associazione “Il Filo di Seta”: un impegno forte a favore delle donne, soprattutto delle donne vittime di violenza. Un’esperienza, la sua, che fa il paio con le notizie di cronaca di questi giorni: stupri, violenze, frasi indicibili, segno di una diffusa sub-cultura in cui il ruolo della donna viene spesso misconosciuto o passa attraverso le “lenti fuorvianti” di una concezione della vita dove il ruolo del maschio e quello della donna vengono percepiti e sono frutto di mentalità deviate, spesso nascoste, ma non meno vere.
Nei giorni scorsi, a Scoglitti, frazione balneare di Vittoria, è stata inaugurata la “panchina rossa”, simbolo della lotta contro ogni tipo di violenza sulle donne.
Essa vuole simboleggiare il “posto” della donna vittima di maltrattamenti e di abusi. Di ogni tipo. L’iniziativa è stata assunta dal comune e da due associazioni femminili: “Il Filo di Seta” e “Donne a Sud”. La scopertura del drappo bianco è avvenuta nei giorni clou delle vacanze estive. In piazza Sorelle Arduino che pullula di turisti, di fronte al mare, in un luogo simbolo del relax e della villeggiatura.
«Esistono molte forme di violenza –– Spiega Rosa, più conosciuta come Rosetta – la violenza fisica, fatta di botte che spesso mettono a repentaglio la vita, ma anche la violenza culturale di chi relega la donna in un cantuccio, di chi, nella vita di ogni giorno, la costringe a subire un linguaggio allusivo o sopra le righe. La legge sullo stalking è un passo avanti, ma non basta. Nell’applicazione pratica essa ha dei limiti. La donna che denuncia spesso è senza protezione: il marito, il compagno, il molestatore resta libero di continuare a far del male. Almeno finché non sarà riuscito ad ucciderla o a farle del male».
L’esperienza decennale fa di Rosetta una testimone privilegiata. Conosce questo mondo come pochi.
«Non è vero che la violenza sia diffusa solo in alcune fasce più emarginate della società. La violenza si consuma spesso tra le mura domestiche, anche nelle vite di persone insospettabili, che occupano magari un ruolo importante nella società. Interessa persone di ogni fascia sociale, sia italiani che stranieri. Ciò che emerge, ciò che arriva fino a noi, è la punta di un iceberg. Molti episodi restano nel sommerso, non sono conosciuti. E le donne che subiscono violenza vivono per anni una condizione di abiezione e di sottomissione».
Molte riescono a reagire, a dire “basta”: spesso accade al culmine di un episodio di violenza fisica, magari quando si è costretti a ricorrere alle cure mediche, o al Pronto Soccorso. O quando la donna sente che è a repentaglio la propria incolumità o quella dei figli. «Riceviamo richieste di ogni tipo. Anche di notte. Cerchiamo subito un tetto, un luogo sicuro, per la donna in fuga, che spesso è in compagnia dei figli. Poi, bisogna trovare per loro una soluzione, purtroppo lontana da casa, dal luogo dove vivono i loro “aguzzini”. Per la donna che ha avuto il coraggio di denunciare, inizia una fase difficile: deve cominciare una nuova vita, lontana dai propri affetti, dalle proprie certezze, dai punti di riferimento quotidiano.
Qualcuna non ce la fa, spesso abbandona il nuovo cammino e torna dal proprio carnefice. Spesso subiscono la pressione delle famiglie, che chiedono di ripensarci.
Le donne credono alle promesse di chi le rassicura che cambierà tutto, che non ci saranno più violenze. Ma è un’illusione: i violenti, i carnefici non cambiano! Prima o poi l’incubo ritorna!».
E se alcune notizie di cronaca inducono allo sdegno collettivo, questo non basta ad eliminare sacche diffuse di mentalità maschilista più diffusa di quanto si pensi. «Questa panchina è un simbolo, un monito, non solo un fatto coreografico – conclude Rosetta – vuole essere un monito, vuole indurre ad una riflessione. È importante la repressione, ma è importante soprattutto la formazione. Bisogna lavorare nel quotidiano, a partire dalle scuole e dalla formazione delle giovani generazioni. Moltiplicare i convegni non servirà a molto se non si riesce ad entrare nella vita di ogni giorno. Ed a formare uomini e donne autentiche, che conoscano i valori della vita».