Palmira, la “sposa del deserto” colpita al cuore
Fa male al cuore l’accanito oltraggio inferto all’antica Palmira, la città dell’intrepida regina siriana Zenobia che osò sfidare Roma nel III secolo d.C. Un drone russo ha documentato (il 5 febbraio scorso) l’avvenuta distruzione con l’esplosivo di due straordinari monumenti: il proscenio del teatro (II sec. d.C.) e il tetrapilo (III sec. d.C.) posto sulla via principale dell’antica città siriaca, patrimonio dell’umanità UNESCO (1980).
I jihadisti del Daesh, responsabili di questo ennesimo colpo al cuore inferto all’antica “sposa del deserto” (uno dei titoli attribuiti a Palmira), sanno bene quanto questo oltraggio addolori e indigni molti, non solo in Occidente ma ovunque nel mondo. E sembra che siano spinti a ripetere queste assurdità da un morboso ed esasperato bisogno “pseudo-adolescenziale” di essere al centro dell’attenzione mediatica, un esibizionismo primordiale della loro “potenza” offesa ma capace di gridare a tutto il mondo il suo disprezzo, dove le motivazioni ideologiche e religiose che forniscono a corredo appaiono, almeno a noi, un misero contorno strumentale. In aggiunta alle ripetute distruzioni vi è purtroppo la strage di centinaia di persone, bambini, donne e anziani compresi. Tra le vittime di Palmira, va ricordato, vi fu anche l’ottantaduenne ex capo della direzione generale delle antichità e dei musei, il professor Khaled Asaad, colpevole di aver nascosto molte antiche statue e reperti. Fu decapitato e poi appeso ad un’antica colonna il 18 agosto 2015, dopo la distruzione dei templi di Baalshamin (II sec. d.C.) e di Bel (I sec. d.C.), delle torri funerarie e dell’arco di trionfo.
Non intendo certo scusare le azioni dei jihadisti, ma devo onestamente riconoscere che non sono purtroppo stati loro ad inventare questi metodi, e l’orrore che suscitano non è prerogativa tout-court e solamente di un certo islamismo radicale di oggi. Nella storia del mondo, non sono molti i popoli che hanno saputo evitare il gravissimo pericolo dell’arroganza che alimenta le pulizie etniche o le guerre di religione, per non parlare di inquisizioni, autodafé, shoah e stragi. È la guerra a non avere nessun rispetto per l’essere umano, e quindi neppure per l’arte e la cultura, che sono frutto dell’umanesimo: dal cristiano incendio del Serapeion (biblioteca) di Alessandria alla fine del IV secolo fino al tritolo talebano sotto le statue dei Buddah di Banyam in anni recenti.
Una cosa però i jihadisti l’hanno azzeccata, secondo me: hanno puntato sui giovani di mezzo mondo ed hanno offerto loro una prospettiva: lottare insieme per qualcosa. La metà, forse, dei combattenti Daesh è costituita da giovani di molti Paesi, oltre una cinquantina, islamici e non, che sono stati addestrati e formati (o indottrinati?) con grande cura.
La maggior parte del mondo non ha colto questa novità. E la conseguenza sono gli uomini forti che di questi tempi vanno per la maggiore, quelli che nascondono i problemi dietro ai muri e fanno la voce grossa per minacciare altre guerre a chi non si adegua.
Non sarebbe meglio guardarli in faccia i problemi del mondo, chiamarli con il loro vero nome e decidere una buona volta di affrontarli insieme, dato che ci coinvolgono tutti?
Però ci vuole una prospettiva, una prospettiva ampia. Per esempio raccogliere la sfida del Daesh e scommettere sui giovani. Mi chiedo se non potrebbero essere le Nazioni Unite ad aprire la strada puntando il meglio delle risorse reperibili su formazione, crescita culturale e tecnica dei ragazzi. Magari partendo proprio da quei milioni e milioni che stanno nei campi profughi, offrendo loro una chance. Scuola, formazione, abilità, oltre al cibo, dentro a zone neutrali protette all’interno dei loro Paesi. E non solo scuole di base, ma possibilità di studi anche più elevati per chi ne abbia le capacità. Anche nei capi stessi finché non sarà possibile di meglio, e avvalendosi della competenza di agenzie educative internazionali e ONG.