Paestum, la Grecia a casa nostra

Una perla del mondo ellenico sul nostro territorio. Conserva intatte le tre forme dell'arte greca che raccontano anche il rapporto vivo con l'Assoluto
paestum

Quando poco più di duecent’anni fa le moli intatte dei templi di Paestum apparvero per la prima volta tra boscaglie e canneti frequentati solo da mandrie di bufali, per i viaggiatori che s’erano avventurati nella piana acquitrinosa del Sele fu un vero choc: qualcosa di simile si sarebbe ripetuto in epoca recente con la scoperta delle piramidi maya nelle foreste del Centroamerica. Possibile che la piccola Italia celasse ancora tali gemme di quella civiltà ellenica che, trapiantata sul nostro suolo, aveva prodotto una fioritura ancor più stupenda, tanto da far parlare di "Magna Grecia"?

 

Paestum, la Poseidonia fondata dai Sibariti, la Grecia a due passi da casa. Unica per più motivi: sola città greca il cui perimetro murale sia interamente conservato, possiede testimonianze insigni delle tre forme d’arte greca giunte fino a noi: l’architettura, rappresentata dai templi dorici, di cui quello di Nettuno per maestosità, equilibrio di forme e armonia di linee rivaleggia con lo stesso Partenone; la scultura, con gli elegantissimi rilievi arcaici del suo santuario alle foci del Sele; e infine la pittura, esemplata in quella Tomba del Tuffatore – unico affresco greco esistente – la cui svelta figurina nuda che si slancia da un alto pilastro sembra simboleggiare l’anelito dell’anima a varcare i confini dell’aldilà. E se non bastasse, a tutto ciò si aggiunga la splendida collezione di pitture funebri lucane, espressione del fiero popolo italico che per circa 140 anni soggiogò i posidoniati, rimanendo peraltro soggiogato dalla loro superiore civiltà, per poi cedere a sua volta ai conquistatori romani.

 

Paestum, città santuario, tesa verso l’Assoluto: non solo per le celebri costruzioni templari di cui s’è detto, ma anche per il rigoglioso sottobosco di tempietti minori, attorno a quei giganti. Allo svettare di essi in superficie sembra corrispondere, come la radice alla chioma di un albero, il singolarissimo sacello sotterraneo in cui si rinvennero otto vasi bronzei contenenti l’offerta di un miele ancora soffice dopo duemila anni.Nonostante la dedica della città al dio del mare Poseidone, vera sovrana del sito e celebratissima in tutta la regione fu Hera Argiva, la dea madre di tutte le altre divinità, custode della famiglia e della fecondità. Suo attributo la melagrana dal ricettacolo gravido di semi, che ben richiama l’idea di vita, e di vita infinita.

 

La decadenza di Paestum è da ricercarsi soprattutto nell’apertura, dopo l’avvento dell’Impero romano, di nuove vie di comunicazione con l’Oriente, che tagliarono fuori la città dalle principali correnti di traffici. Nella generale decadenza degli ultimi secoli dell’Impero, le alluvioni del vicino fiume Salso la trasformarono in pantano e i rosai celebrati da Virgilio cedettero ai rovi e alla boscaglia: un baluardo, questo, che ce l’ha preservata da irreparabili manomissioni. Per sfuggire alla malaria e alle incursioni dei pirati saraceni, l’assottigliata popolazione di una Paestum ormai cristiana fu costretta a trovare rifugio sulle balze del Calpazio.

 

A vegliare su quella desolazione rimasero i templi, vuoti gusci di conchiglie dacché anche gli dei li lasciarono deserti. Sostando oggi tra quelle immani architetture di fulvo calcare, ormai aperte ai venti e al sole, viene da riflettere sul vano sforzo umano di ridurre a propria misura, quasi di imprigionare la divinità. Ed Hera Argiva? Al simbolo s’è sovrapposta la realtà e sul Calpazio la sua melagrana ricompare in mano alla Madonna del Granato. Per lei, a maggio e a mezz’agosto si snodano processioni con barchette votive, non dissimili da quelle che si celebravano in onore della dea ad Argo: singolare adattamento cristiano, sul nostro suolo, d’un antichissimo culto pagano.

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