Padre e figli
«Può sembrare assurdo, ma il dolore diventa quasi necessario per rendere perfetta la gioia». L’esperienza della famiglia Palmieri.
Gualtiero Palmieri è un imprenditore bolognese che aderisce al progetto Economia di Comunione. Con la moglie Daniela e i tre figli Benedetta, Samuele e Francesco vive a Porretta Terme. Una famiglia, la loro, che l’esperienza della malattia di Gualtiero ha reso ancor più unita, a conferma che difficoltà e dolore, se condivisi, possono essere una risorsa. Ma sentiamolo dalla bocca stessa di Gualtiero e dei suoi:
Gualtiero: «La mia vita di bambino è stata segnata dall’esperienza dell’abbandono, dell’orfanotrofio e dell’adozione. Ho vissuto tuttavia un’adolescenza nel calore di una nuova famiglia con dei valori che si sono rivelati preziosi.
«Nell’ottobre del 1978, durante un’esperienza in Algeria presso i Piccoli fratelli di Charles de Foucauld, incontrai Ulisse Caglioni, focolarino di Tlemcen. Conoscere ed approfondire la spiritualità dei Focolari fu per me un raggio di luce che mi indicò una strada da percorrere. Più tardi, frequentando i giovani del movimento a Bologna e attraverso l’impegno a vivere il Vangelo insieme, crebbe in me il desiderio di spendermi per il bene comune.
«A 26 anni, quando pensavo a tutto fuorché al matrimonio, m’innamorai di Daniela e dopo un anno e mezzo decidemmo di sposarci. Senonché nel novembre 2008, in seguito ad una banale caduta, dovetti sottopormi ad un ciclo di iniezioni epidurali. Durante l’ultima, un errore medico mi provocò una paralisi agli arti inferiori, un meningismo e un’infezione al midollo.
«Dovemmo rinviare il matrimonio e la mia assenza dal lavoro aggravò la situazione dell’azienda che, insieme ai miei genitori, gestivo già da anni. Passavo da un ricovero all’altro, tra consulti medici e tentativi di nuove terapie, finché un giorno mi fu detto chiaramente che sarei rimasto in una carrozzina, anzi che l’infezione al midollo avrebbe potuto essermi fatale.
«E Daniela a sollecitarmi: “Gualtiero, ci sposiamo? Io lo desidero tanto…”. “Ma come? Non vorrai sposare un paralitico che probabilmente non potrà vivere con te più di qualche mese?”, risposi. “Non importa, se anche ciò fosse, saremo sposi per l’eternità!”, sussurrò con fermezza. Un groppo alla gola quasi mi soffocò ed entrambi rinnovammo il nostro impegno a lottare giorno dopo giorno per vivere l’uno per l’altra.
«L’8 ottobre del 2008 dicemmo il nostro sì davanti a Dio. Quaranta giorni dopo mi trovai in un ospedale del nord, per mesi inchiodato ad un letto. Intanto la notizia che aspettavamo un figlio trasformava ogni sofferenza in un “grazie” a Dio e in una nuova scommessa: vivere anche per i figli che lui ci avrebbe donato.
«Tornai a casa giusto in tempo per veder nascere la nostra prima figlia: Benedetta. Sì, il nome voleva essere un segno della benedizione di Dio sulla nostra famiglia. Pur nella precarietà della mia situazione di salute che ogni tanto mi obbligava a letto con forti dolori, ripresi pian piano a lavorare. Dopo due anni arrivò Samuele e dopo altri quattro Francesco.
«Qualche anno fa un peggioramento improvviso ci fece sperimentare ancora una volta la potenza della sofferenza accolta come dono e condivisa: è allora che ti rendi conto che quel dolore – anche se può sembrare assurdo – diventa quasi necessario per rendere perfetta la gioia».
Benedetta: «Durante la nostra infanzia mamma e papà ci hanno sempre raccontato della malattia di lui in modo che riuscissimo a capire perché ogni tanto stava più male del solito. Tutto procedeva abbastanza bene fino a tre anni fa, quando papà ha avuto una forte ricaduta che l’ha costretto a letto per tanto tempo. Preoccupazione e angoscia mi avvolgevano tutte le volte che pensavo a quanto potesse soffrire.
«Però ogni volta che entravo in camera sua questi sentimenti negativi si trasformavano. Col solo suo sguardo sofferente lui riusciva a comunicarmi tutto il suo amore per me e per il resto della famiglia, tanto che uscivo dalla stanza con una gran voglia di piangere, commossa dalla sua forza d’animo.
«Certo anche mamma soffriva… Sentirsi impotente di fronte alla malattia senza cura del proprio marito dev’essere un dolore grandissimo. L’amore è il valore più grande che i miei genitori mi abbiano trasmesso. L’amore vince tutto, se ci si crede! Loro ci hanno creduto, e ci credono tuttora».
Samuele: «Vedere che il mio papà non avrebbe più potuto fare le stesse cose di prima mi addolorava molto, ma soprattutto provavo un sentimento di rabbia, aumentata anche dal fatto che non esisteva una medicina per farlo guarire.
«Molte volte lo vedevo pregare sereno anche nei momenti più dolorosi della malattia, e questo mi rendeva ancora più confuso. Ma l’amore di Dio dove stava? Passavano nella mia testa tanti momenti e cose che fino a quel momento facevamo insieme e tutto ad un tratto non avremmo più potuto fare: una passeggiata, andare allo stadio…
«In quello stesso periodo ho iniziato anche un cammino più profondo di fede, grazie agli incontri in parrocchia e con i giovani dei Focolari. Con il tempo, questo mi ha aiutato a comprendere sempre più l’atteggiamento fiducioso di papà che invece prima mi faceva arrabbiare.
«Pian piano ho cominciato anche a vedere il positivo dovuto a questa nuova situazione. Per esempio, papà prima era impegnato con il lavoro per lo più fuori: ora invece era “costretto” a lavorare a casa grazie ad Internet, quindi è stata un’occasione per averlo fisicamente vicino, nella quotidianità, per raccontargli come era andata a scuola o agli allenamenti.
«Adesso mi sembra di scorgere di più l’amore di Dio per papà e per me, e questo mi rende più sereno e contento nel vivere e accettare tutta questa vicenda».
Francesco: «Quando papà ha iniziato a stare male, avevo dieci anni e frequentavo la quarta elementare. I primi giorni credevo fosse uno dei suoi “periodi no”, come succedeva ogni tanto; poi pian piano ho capito che non era una cosa passeggera. Sentirlo lamentarsi per il dolore quando era a letto mi dava una fitta al cuore, così per non far vedere agli altri che stavo male spesso mi rifugiavo in un angolo della casa e piangevo.
«Un giorno papà, vedendomi triste, mi disse di non preoccuparmi, perché aveva trovato un modo per sentire meno dolore: condividerlo con Gesù. Io però all’inizio ponevo spesso a Gesù questa domanda: “Se tu sei così buono, perché fai del male a papà?”. Quando arrivai a capire che anche questo dolore era servito a lui per avvicinarsi di più a Gesù, servì pure a me: mentre prima dicevo sempre le solite preghiere imparate a memoria, quando pregavo per papà sentivo che quelle venivano dal cuore, non dalla testa.
«Una cosa che notai presto fu che i miei amici avevano i loro papà con cui giocavano a calcio, andavano in bicicletta, allo stadio, al cinema, mentre io avevo mio padre a letto. In compenso, siccome lui lavorava da casa, stavamo molto tempo insieme, facevamo dei giochi di società, guardavamo la televisione, parlavamo dei più svariati argomenti… Insomma, questa condivisione ha rafforzato il legame tra noi. Naturalmente stare in casa tanto insieme vuol dire anche aumentare le discussioni!
«Quando mio padre stette meglio, verso l’estate scorsa, ne fui molto felice: avevo capito che non c’è miglior medicina che la fede. Credo che questa esperienza abbia aiutato tutti in famiglia; personalmente mi ha fatto crescere e migliorare nel rapporto con lui, ma anche con Dio».