Padre e compagno di strada dei poveri

Nei giorni scorsi è venuto a mancare Giuseppe Benvegnù Pasini, sacerdote della diocesi di Padova, già assistente Acli, per lunghi anni direttore della Caritas italiana e presidente della fondazione Zancan. La telefonata di Papa Francesco qualche giorno prima della sua scomparsa
Pasini

“Monsignore” era il titolo gerarchico-ecclesiastico con cui lo si identificava, in particolare negli appuntamenti e negli eventi pubblici. Lui, da sempre, amava essere chiamato “don” Giuseppe. E così, con soddisfazione e convinzione, lo chiamavano i suoi più diretti collaboratori, me compreso, nei suoi lunghi anni di direzione della Caritas italiana.

Qualcuno, soprattutto fra i più poveri ed emarginati, che lui sempre e tenacemente incontrava e appoggiava, lo chiamava semplicemente “padre” Giuseppe. Una inattesa e sorprendente profezia, visto che papa Francesco in persona ha recentemente abolito il titolo di “monsignore”, convinto che il nome di "padre" meglio rifletta la missione affidata ad un sacerdote di annunciare e testimoniare che Dio è amore, misericordia e speranza. Una decisione probabilmente non molto gradita a chi aspira a cariche e titoli onorifici all'interno del clero.

Don Giuseppe Benvegnù Pasini è scomparso qualche giorno fa a Padova, all’età di 83 anni, nell'hospice dell'Opera Immacolata Concezione della Mandria, dove si era da tempo ritirato per una dolorosa malattia. In nome di tutta una vita, la sua, spesa per gli “ultimi”, per la Chiesa dei poveri e per i poveri, sia a livello nazionale che internazionale.

Il 3 marzo scorso, papa Francesco gli aveva telefonato: «Sono papa Francesco, mi ha dato il suo nome il vescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, per sapere come si sono svolti i fatti». Cioè la sua malattia, la sua sofferenza offerta a Dio, come preghiera di sostegno allo stessa persona del Papa e alla sua visione di “Chiesa povera”.

Quel giorno e a quell’ora don Giuseppe era solo e scoppiò in lacrime. Papa Francesco è rimasto in silenzioso ascolto, chiedendo a don Giuseppe, solo alla fine della telefonata, di continuare a pregare per lui.

Nei lunghi anni che ho avuto la fortuna o la grazia di collaborare con don Giuseppe, per più di dieci anni direttore di Caritas italiana, solo una volta ho visto don Giuseppe scoppiare in un pianto irrefrenabile: fu in occasione della dolorosa notizia di una collaboratrice internazionale della stessa Caritas, assassinata in Somalia, mentre prestava il suo servizio di medico ai poveri ed ai “dimenticati”.

Quelle lacrime sono state per me un esempio e una testimonianza incancellabile del coinvolgimento spirituale e umano, di testa e di cuore, con cui viveva, insieme ai collaboratori, la scelta preferenziale degli ultimi. Un impegno scomodo e non di rado poco gradito e talvolta ostacolato in certi ambienti della stessa Chiesa. Così come fu per il suo predecessore in Caritas italiana, monsignor Giovanni Nervo.

A raccontare della telefonata di Papa Francesco qualche giorno dopo, è stato lo stesso don Giuseppe. Con l’aggiunta di altri particolari che rivelano la sua vocazione e missione, il suo essere “don” e “padre”, in sintonia e in comunione con lo stesso Bergoglio, quando a Buenos Aires e nelle parrocchie dell’Argentina, camminando a fianco dei poveri e con i poveri, preferiva essere chiamato padre e non monsignore, né Sua Eminenza o Sua Eccellenza.

Don Giuseppe ha infatti confidato di aver scritto una lettera a Bergoglio già nel gennaio 2014: «Le scrivo, caro papa Francesco, per dirle il mio grazie per la 'rivoluzione' che sta promovendo nella Chiesa e nel mondo, incentrata sull’amore misericordioso di Dio, sulla pratica della carità cristiana, sulla scelta preferenziale dei poveri e sul dovere di eliminare le cause della povertà […]. Vedendola all’opera già nelle prime settimane del suo ministero, ho concluso di poter ripetere con serenità il mio nunc dimittis, perché lo sviluppo della carità nella Chiesa era stato affidato dal Signore alle mani giuste, cioè alla persona che poteva darle il massimo impulso, che annunciava l’amore di Dio con la parola, ma anzitutto testimoniando con la vita».

Oltre ad essere ‘don’ e ‘padre’ delle “periferie esistenziali” umane e spirituali di non pochi uomini e donne del nostro tempo, don Giuseppe è stato un giornalista di razza, autore di editoriali, articoli, interventi e libri, illuminanti e profetici, non solo sul ruolo di testimonianza della Chiesa ma anche sull’impegno di solidarietà civile e sociale: «la carità – diceva – è anche politica!». Dalla sua posizione di “osservatore privilegiato”, alla direzione di Caritas italiana (organismo socio-pastorale della Chiesa italiana, non dimentichiamolo!), ha potuto cogliere luci e ombre del nostro Paese, denunciare il persistere e l’ampliarsi di varie forme di povertà ed emarginazione, sollecitare il doveroso passaggio culturale e concreto dall’ assistenzialismo alla condivisione e alla promozione umana.

Ed in questa ottica, non posso personalmente non ricordare la “presentazione” che don Giuseppe fece al breve libro Inseguendo la vita – attese di giovani (Ed. Città Nuova pp. 112), dove tra l’altro si legge: «La Chiesa si pone al servizio del mondo giovanile ed emarginato, presentandosi come coscienza critica della società, riproponendo continuamente alcuni valori che rischiano, oggi, di essere oscurati: la gratuità, il senso del rapporto, l’attenzione alla singolarità delle persone, la spinta al servizio, la nonviolenza, il perdono, la pace».

Niente male per una Chiesa che si appresta a vivere un Anno Giubilare della misericordia e per una politica planetaria e globalizzata che sembra aver smarrito o voglia deliberatamente continuare ad essere e presentarsi come amica dei potenti, nemica di popoli e paesi condannati all’emarginazione e alla povertà, alla violenza e all’estinzione.

Grazie don Giuseppe, anche a nome dei poveri di oggi, che non sono potuti venire al tuo funerale. Gli altri poveri, che già abitano nei “cieli nuovi e nella terra nuova”, sicuramente ti accoglieranno a braccia aperte. Insieme a mons. Nervo e a quel Dio amore e misericordia per il quale hai speso con fede e tenacia i lunghi anni della tua vita terrena, “facendo strada ai poveri, senza farti strada”, rifiutando il titolo di monsignore e lasciandoti chiamare ‘don’ e ‘padre’.

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