Padova e Verona, due città paradigmatiche
Due città che, seppure in maniera diversa, diventano in qualche modo un “caso nazionale”: sono Padova e Verona, i due più importanti capoluoghi veneti al ballottaggio, e che per alcuni versi offrono una chiave di lettura diversa a quelle che sono le linee generali emerse a livello nazionale con le ultime amministrative.
Il risultato che offre gli spunti di riflessione più interessanti è quello di Padova. Una città uscita profondamente divisa dal precedente mandato di Massimo Bitonci – eletto nelle file della Lega, poi “defenestrato” dalle dimissioni dei consiglieri che avevano portato al commissariamento, a cui aveva fatto seguito un’acre campagna elettorale – ha infatti scelto al secondo turno Sergio Giordani, a capo sì di una coalizione di centrosinistra, ma che sempre si è presentato come uomo “civico” e che ha saputo legare a sé pressoché tutta l’area “non bitonciana” – in particolare l’altro candidato che aveva ottenuto percentuali significative, Arturo Lorenzoni, a capo di una lista civica collocata a sinistra.
Una coalizione che si presentava quindi come “cittadina”, propugnatrice di una svolta nel senso del superamento delle divisioni: è significativo che un giornale come Il Mattino di Padova abbia commentato che, a fronte della “città dei senza” proposta da Bitonci – senza immigrati, senza criminalità, senza traffico – abbia invece vinto la “città dei con”, in senso inclusivo. Lettura un po’ romantica? Forse, ma il filo rosso che emerge nel leggere le varie opinioni e i commenti è che, a fronte di un Bitonci a cui molti rimproverano i modi bruschi e i toni troppo accesi, ci sono stati un Giordani e un Lorenzoni – perché di una vittoria “in tandem” di fatto si tratta, tanto che Lorenzoni è già considerato vicesindaco in pectore – capaci invece di “parlare alla città”, di far almeno sperare in in una politica che sappia cooperare dal centro moderato fino alla sinistra.
Certo, nessun voto bulgaro: Giordani è arrivato al 51 per cento, e i voti totali a suo favore sono stati 4 mila in meno rispetto alla somma di quelli ottenuti al primo turno da tutti i partiti che poi gli hanno dato il suo sostegno (indice che anche l’astensione ha avuto il suo peso); né sarà facile nei prossimi cinque anni tenere insieme una maggioranza così eterogenea, punto dolente che già ora molti additano. Rimane comunque il buon risultato ottenuto da quella che è – cito uno dei tanti commenti letti in questi giorni – una “sinistra che fa la sinistra”, smarcata dall’immagine di un singolo partito – Pd nello specifico – e capace, per una volta, di lanciare un messaggio di unità.
Diverso il caso di Verona. Qui il ballottaggio ha assunto i toni di referendum sul sindaco uscente Flavio Tosi, che alla fine del suo secondo mandato contava di lasciare il posto alla compagna Patrizia Bisinella – candidata per il suo partito Fare!. Fin troppo scontati, dunque, i malumori di chi ha visto in questo una deriva “familistica” dell’ormai ex primo cittadino, peraltro spesso accusato di gestire in maniera poco chiara i rapporti di potere.
Inoltre pare non aver giovato il sostegno offerto dal Pd per il secondo turno (la cui candidata, Orietta Salemi, alla prima tornata si era posta appena un punto sotto la Bisinella): vedendo la caduta verticale dell’affluenza alle urne – appena il 42 per cento – e l’altissimo numero di schede bianche – oltre 4 mila – si direbbe che molti elettori di centrodestra, da cui pur proviene Tosi, non si siano riconosciuti in una candidata che aveva ottenuto il placet del Pd; e che molti elettori Pd abbiano preferito astenersi o votare scheda bianca piuttosto che appoggiare una candidata che sentivano come lontana. Su tutto questo ha capitalizzato il candidato del centrodestra, Federico Sboarina, che ha portato a casa un sostanzioso 58 per cento; e che si appresta ora a governare con un “mandato forte”, unendo Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Massimo Mamoli sul Corriere del Veneto ha parlato di “sconfitta dei podestà”, alias Tosi e Bitonci; in una sorta di voto non contro i partiti ma contro il “sistema” che si era creato in queste due città.
Se guardiamo al Veneto nel suo complesso, poi, il dato importante che emerge è il rafforzamento del governatore Luca Zaia. Zaia infatti non ha mai fatto mistero di sostenere una Lega “diversa” e più moderata rispetto alla linea “lepenista e salviniana” di Bitonci – tanto che addirittura il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, in un’intervista aveva parlato di una “Lega buona” di Zaia e di una “Lega cattiva” di Salvini – ; né ha dimenticato i dissidi con Flavio Tosi, risalenti ancora agli anni in cui l’ex sindaco di Verona ruppe con la Lega, fondò il suo partito e si candidò alle regionali contro Zaia stesso. In un colpo solo insomma, secondo molti commentatori, Zaia si ritrova un Veneto “sgombro” da Bitonci, Salvini e Tosi, portatori di linee politiche diverse dalla sua; beneficiando a Verona di un sindaco che esprime come lui un centrodestra moderato, e a Padova di uno che – pur appartenendo sulla carta al fronte politico opposto – ha sempre affermato di voler fare del dialogo e del senso civico il punto fondante del suo agire, e potrebbe quindi trovare con l’attuale presidente della Regione alcuni punti di incontro. Se a questo aggiungiamo che a Belluno ha vinto largamente Jacopo Massaro, espressione di una coalizione civica di centrosinistra (ma più di centro che di sinistra, e mi si perdoni il gioco di parole) è ancora più evidente che Zaia può contare su quello che, in tempi di Democrazia Cristiana, si sarebbe chiamato un “Veneto bianco”: moderato, al centro, che rifugge gli estremismi. E che cerca di fare sintesi davanti alle divisioni.