Pace e termosifoni, la transizione ecologica al tempo della guerra
L’Italia e l’Europa si trovano davanti ad un dilemma gravoso indotto dalla tragedia della guerra in Ucraina: da una parte hanno deciso di allinearsi totalmente con gli Usa nel rifornire di armi l’esercito ucraino, ma dall’altra parte si continua a pagare Putin per il rifornimento di gas dal quale siamo in gran parte dipendenti.
La necessità di mantenere un certo livello dei consumi e di capacità produttiva delle nostre società occidentali è, come nel caso dell’Egitto di Al Sisi, all’origine dei conflitti tra le istanze delle associazioni per il rispetto dei diritti umani e le strategie di grandi società come la nostra Eni che orienta molto della nostra politica estera.
Una contraddizione che si è resa palese quando, a gennaio, nel pieno dei preparativi del conflitto in Ucraina si è svolta una videoconferenza tra Putin e i suoi ministri con i rappresentanti di alcune grandi società italiane.
Ma la contraddizione è ancora più evidente se si considera il tono soddisfatto di Charles Michel nell’annunciare, il 7 aprile, l’accordo raggiunto nel consiglio europeo per portare ad un miliardo e mezzo di euro il contributo in armi verso l’Ucraina, se solo si tiene conto che ogni giorno si versano da 800 milioni a un miliardo di euro nelle casse di Putin per pagare le forniture di gas.
Il dettaglio della conversione in valuta di Mosca di tale flusso giornaliero di denaro è una questione tecnica che anche Draghi ha confessato di non aver capito bene dopo un colloquio telefonico con il presidente russo. L’interdipendenza economica comporta la necessità di parlare di affari con chi, in questo momento, è di fatto il “nemico” di una guerra che va avanti oramai da troppo tempo.
I media di venerdì 8 aprile si aprono con la notizia del segretario di Stato Usa Antony Blinken che assicura una nuova e ancora più massiccia fornitura di armamenti (“migliaia di missili”) al governo di Kiev, in continuità con una strategia che parte da molto tempo prima dell’invasione russa del 24 febbraio e che spiega la capacità di resistenza bellica degli ucraini.
Come ha ribadito Blinken al termine della riunione dei ministri degli Esteri della Nato a Bruxelles, «abbiamo messo a disposizione la nostra esperienza, in particolare il Pentagono, per aiutare a determinare ciò che pensiamo possa essere efficace, ciò che gli ucraini sono pronti a usare non appena lo otterranno e ciò a cui abbiamo effettivamente accesso». Una dichiarazione che fa eco alla richiesta pressante del ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, che si è recato al vertice Nato per chiedere una cosa molto “semplice” come ha detto nella conferenza stampa tenuta assieme al segretario dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg: «Ci sono solo tre punti: armi, armi e armi».
Già dall’inizio del conflitto, come già evidenziato, Marta Dassù, unica italiana tra gli esperti che hanno redatto il nuovo concetto strategico di difesa della Nato, ha preventivato una vittoria ai supplementari da parte occidentale grazie al concorso di forniture militari all’Ucraina e sanzioni economiche alla Russia.
Si tratta ora di capire se tale linea comporterà la messa in pratica della risoluzione votata a grande maggioranza dal Parlamento europeo a favore “dell’embargo totale e immediato sulle importazioni dalla Russia di petrolio, carbone, combustibile nucleare e gas”.
Draghi ha già parlato di possibilità di razionamento delle fonti energetiche, anche se ha assicurato che l’Italia possiede scorte fino a settembre. In una risposta della conferenza stampa sul Def ha detto, senza mezze misure, che occorre privilegiare la pace alla sicurezza dei condizionatori d’aria o dei termosifoni delle case sul presupposto evidente, a suo giudizio, che si può giungere ad un negoziato con Putin agendo con le sanzioni e con la fornitura di armi a Kiev.
La richiesta pressante di unità invocata dal presidente del Consiglio trova il sostegno dei partiti che fanno parte della larga maggioranza promossa da Mattarella, rafforzata, sulla questione delle armi, da Fratelli d’Italia.
Le voci critiche arrivano invece da parte del mondo associativo e della cultura. Sulla questione energetica, ad esempio, esiste una frattura che si riscontra da prima della guerra in Ucraina e riguarda la priorità delle scelte strategiche tra coloro, come le realtà ambientaliste, che sostengono la necessità di promuovere massicci investimenti sulle fonti rinnovabili e la linea seguita dal ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani, che ha sempre insistito sulla necessità di ricorrere al gas come “energia di transizione” verso l’obiettivo di lungo termine che resta quello delle fonti rinnovabili. Posizione conforme a quella dell’Eni senza tralasciare l’apertura verso il nucleare di quarta generazione che alcuni, come la Francia, vogliono far rientrare nella categoria dell’energia “verde” a livello Ue.
Il caso più eclatante e paradigmatico, di cui ci siamo occupati, riguarda la Sardegna come territorio che, come conferma un recente studio dell’università di Padova e del politecnico di Milano, potrebbe diventare progressivamente una regione a energia totalmente rinnovabile entro il 2050, mentre i piani governativi prevedono una metanizzazione dell’isola con tre punti di stoccaggio del fossile importato dall’estero. Il blocco del gas russo comporta comunque il ricorso ad altri fornitori come il Qatar, attivo già in campo sanitario ed edilizio, l’Algeria e l’Azerbajan che non è meno coinvolto in scenari di guerra come quella recente nel 2020 contro l’Armenia.
Anche per l’economista Leonardo Becchetti, da noi sentito direttamente e intervistato da Open, la vera alterativa non consiste in altro gas diverso da quello russo, ma nella spinta più decisa verso il ricorso alle fonti rinnovabili che può essere accelerata con facili sistemi di credito d’imposta per le abitazioni private. Basterebbe, secondo il docente di Economia politica di Roma 2, un annuncio esplicito di questa decisione a produrre effetti concreti verso Mosca più di altre sanzioni dagli effetti controversi.
Per restare su questi temi, anche in Germania l’opposizione di sinistra propone di investire i 100 miliardi, destinati ad aumentare le spese in armi, a raggiungere una autonomia energetica fondata sulle rinnovabili come maggiore garanzia di difesa per un grande Paese produttivo che ha già deciso di smantellare le centrali nucleari in funzione.
La posizione del governo italiano è ben sintetizzata da chi come Marco Minniti è stato chiamato a presiedere l’importante Fondazione MedOr della società Leonardo. Secondo l’ex ministro dell’interno, intervistato da Il Giornale, ci troviamo dentro un rapido cambiamento di ordine mondiale dove l’Italia deve seguire con decisione «la linea tracciata: aiuto militare a Zelensky e sanzioni economiche sempre più pesanti, fino ad arrivare a tagliare i rifornimenti di gas. Quando è in gioco la libertà, si riscrivono le gerarchie e le priorità». Secondo Minniti «dobbiamo lavorare per isolare Putin, metterlo all’angolo, e fare pressione su tutti quei Paesi che in qualche modo si barcamenano» pur essendo consapevoli del pericolo di un allargamento dell’area dei contendenti e dell’uso di armi sempre più letali».
—
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
—