Pace o lavoro? Liberi dal ricatto occupazionale

Origini, prospettive e ostacoli da rimuovere per fare della Sardegna, e l'intera Italia, una piattaforma di pace per il Mediterraneo
Foto Comitato Riconversione RWM

 Assieme ad Arnaldo Scarpa sono co-portavoce del Comitato per la riconversione RWM e co-presidente di Warfree, liberu Dae sa gherra, associazione di categoria di imprese, professionisti e cittadini per la pace e la riconversione ecologica.

Di cosa parliamo? Il Comitato Riconversione RWM per la pace ed il lavoro sostenibile si è costituito il 15 maggio 2017, a Iglesias, ed è attualmente composto da oltre 20 aggregazioni locali, nazionali ed internazionali accomunate dallo scopo di promuovere la riconversione al civile di tutti i posti di lavoro dello stabilimento della società RWM Italia, controllata dalla Rehinmetall Defense, sito tra i territori di Iglesias e Domusnovas; nell’ottica di uno sviluppo del territorio che sia pacifico e sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e come segno di volontà di pace dal basso, che possa costituire uno stimolo alla cittadinanza attiva e alla politica nei vari territori nazionali e internazionali, necessario in questo clima di “guerra mondiale a pezzi”.

Il nostro percorso è partito da un sussulto etico, una reazione quasi viscerale, nata dall’idea che una sola umanità abita l’unico pianeta a nostra disposizione. Il primo ostacolo in questo cammino è decisamente quello del ricatto occupazionale. Nel nostro bellissimo territorio, il Sulcis-Iglesiente, una fabbrica di esplosivi per miniera era stata riconvertita al bellico nel 2001. Fonti giornalistiche di quel periodo dicono che ciò è stato possibile grazie all’apporto di soldi pubblici e per salvaguardare quelli che allora erano una trentina di posti di lavoro. Questo argomento era largamente utilizzato e ha prevalso rispetto alla forte opposizione del territorio.

Franca Faita, l’operaia della Valsella tra le artefici della riconversione della fabbrica che produceva mine antiuomo nel bresciano e fra coloro che hanno generato il processo partecipativo che ha portato alla Legge 185/90 sull’export di armamenti, aveva scritto agli operai di allora di non accettare la riconversione industriale perché non si poteva immaginare cosa sarebbe successo in seguito con la produzione di armi.

Infatti il comparto civile dell’attività è stato via via dismesso, soprattutto da quando nel 2010 la fabbrica è stata acquisita dalla RWM Italia, controllata dalla Rehinmetall tedesca, un colosso della produzione bellica, di cui si è recentemente parlato a proposito dell’ordine di 550 panzer da parte del governo italiano.

Quando è nato il comitato per la riconversione i lavoratori presso la RWM erano diventati circa un centinaio, ma con assunzioni a tempo determinato reiterate a rotazione, tali da generare aspettative in tutta la popolazione. Uno stipendio adeguato, l’assunzione di parenti e amici a rotazione, hanno spesso fatto dimenticare la precarietà del lavoro, il numero ridotto di contratti a tempo indeterminato rispetto alla forte disoccupazione nel territorio e, soprattutto, la destinazione del lavoro, inquinando le coscienze.

Uno stato di fatto destinato ad incidere culturalmente nel senso della progressiva deresponsabilizzazione che giunge ad accettare la logica dell’indifferenza: «Se non lo facciamo noi, lo faranno altri» è la frase ripetuta in diverse sedi, arrivando ad affermare che le questioni etiche non fanno parte delle preoccupazioni produttive.

Viene meno la spinta a studiare e investire su progetti alternativi, riducendo a far coincidere il lavoro unicamente con lo stipendio, senza preoccuparsi delle interconnessioni che esistono tra la produzione bellica anche locale e le guerre stesse. Del tutto assente poi la cognizione sull’influenza dell’apparato industrial-militare negli scenari internazionali che ci portano a diventare pedine inconsapevoli di scelte che danno enormi profitti per pochi lasciando le briciole a qualcuno, senza considerare le conseguenze a lungo termine sulla salute e sull’ambiente.

Il nostro è un territorio di pace che può dare un lavoro buono, costruttivo, rispettoso dei lavoratori e dell’ecosistema, ma anche di chi ne utilizza i prodotti.  Il lavoro umano qualifica le persone, le colloca nella società con una destinazione non solo individuale.

La nostra Costituzione nell’articolo 4 sottolinea che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» precisando nell’articolo 41, che la libera iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana».

La pace attraverso un’economia di pace che parta dal basso è la strada che abbiamo scelto con la nascita, nel 2021, di Warfree, liberu dae sa gherra: aziende, professionisti, cittadini che firmano un patto sul ripudio della guerra, per vivere come  prassi quotidiana l’art.11 della Costituzione. Sono imprenditori che non separano il diritto al lavoro dal diritto alla vita per altri, che producono migliorando sempre la qualità, perseguendo l’innovazione rispettosa dell’ambiente, che vogliono crescere per assumere altre persone e ingaggiarle in questa silenziosa rivoluzione culturale quotidiana.

Il marchio europeo Warfree, a quanto ci risulta unico al mondo, porta dentro le case un messaggio di pace collegato al lavoro. Con i suoi oltre 100 soci costruisce un’alternativa profonda e pervasiva che si oppone al ricatto occupazionale, costruendo una nuova speranza di pace, a partire da un luogo, la Sardegna, così attanagliato dalla guerra.

Oltre alla presenza della fabbrica di armi, infatti, esistono numerosi poligoni militari che offrono, con effetti minimi sull’economia, enormi spazi destinati alla preparazione delle guerre del mondo, provocando distruzione, inquinamento, morte sul nostro territorio e altrove.

Il ricatto occupazionale legato alle tante basi militari richieste all’Italia nel secondo dopoguerra emerge da un documento degli analisti USA rivelato da Wikileaks e citato dalla sociologa dell’università di Cagliari Aide Esu nel testo “Violare gli spazi. Militarizzazione in tempo di pace e resistenza locale” Ombre corte editore 2024: «L’Italia è una grande portaerei in mezzo al Mediterraneo; sporge ad Est e guarda ad Oriente. In mezzo c’è la Sardegna, che fa parte di questa portaerei, ma non ha il fastidioso problema delle persone e delle città. È una specie di ponte gratuito, acri poco costosi e quasi disabitati. La popolazione è dura e coriacea ma, si sa, incapace di organizzare azioni collettive e iniziative di condivisione. L’isola è povera, e quindi facilmente corruttibile con poche centinaia di posti di lavoro nelle basi militari». (Porcedda, Brunetti  2011, pag.3,  citato da A. Esu, op. cit. pag 19-20)

Warfree esprime il contrario di tali ragioni e strategie che hanno portato all’invasione bellica della nostra isola.  Noi crediamo, infatti, che la Sardegna non sia povera in maniera definitiva: è ricca del suo paesaggio, della sua storia, delle sue produzioni agricole, alimentari, artigianali, dei suoi valori.

Siamo coriacei, sì, perché dotati, come dice un giornalista di pace “di una mite ostinazione”, siamo capaci, però, di organizzare azioni collettive che non siano solo sarde, ma abbiano un valore universale, perché tutto è connesso e crediamo che il lavoro collegato alla guerra vada estirpato e sostituito in ogni territorio. La Sardegna isola di pace, piattaforma di pace per il Mediterraneo è l’utopia che guida i nostri passi.

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Quest’articolo riporta l’intervento pronunciato durante la conferenza stampa dell’11 luglio 2024 promossa nella Sala Stampa della Camera dei Deputati per presentare l’avvio del Laboratorio permanente sulla politica industriale di pace in Italia con la pubblicazione del dossier “Più Armi Più Lavoro. Una falsa tesi” di Maurizio Simoncelli e Gianni Alioti. Link alla conferenza stampa https://webtv.camera.it/evento/25868

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