Pace e guerra, abbiamo bisogno di un realismo utopico

Seconda parte della relazione svolta a Roma dal direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale in occasione della giornata dell’Europa 2023 – Insieme per l’Europa “Dialogo: cultura dell'incontro per conquistare la pace”. Pasquale Ferrara è tra l’altro autore del testo edito nel 2023 da Città Nuova “Cercando un Paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi”
Pace Martin Luther King (AP Photo/File)

Il primo ottobre 2022 ho partecipato a un convegno, a Milano, dal titolo evocativo e affascinante: La geopolitica della pace. Affidandomi alla comprensione e alla benevolenza dell’uditorio (si trattava del Festival della missione), ho mosso una critica cortese ma (cordialmente) corrosiva al tema dell’incontro, e cioè che secondo me geopolitica e pace non vanno a braccetto.

Mi pare anzi un ossimoro. Geopolitica, in molti contesti, è un concetto strategico, che presuppone un qualche condizionamento oggettivo sulla politica estera di un Paese, e di riflesso sulla politica internazionale, legato alla dimensione territoriale. Anche se negli ultimi decenni è nata la disciplina della geopolitica critica, come pure la geopolitica sistemica e post-classica, la nozione resta collegata agli attributi di quello che si chiama hard power: non solo territori, ma anche risorse, demografia, capacità militari, capacità produttive.

Oggi la geopolitica domina il discorso internazionale. Molti suoi cultori improvvisati non si limitano a descrivere, ma si avventurano a consigliare ricette che sono in fondo basate sulla politica di potenza. L’alibi della geopolitica come percorso obbligato rischia seriamente di mettere in ombra le potenzialità della politica come scelta consapevole e la logica delle conseguenze.

Si parla anche, sempre di più, di una Ue geopolitica. Dopo l’aggressione russa all’Ucraina, il criterio geopolitico è usato, in termini pratici, per mettere in luce l’unità di intenti sulle scelte di lungo periodo degli stati membri dell’Unione. Per rendere credibile l’autonomia strategica dell’Unione, la questione centrale è però quella della sovranità democratica europea, un modo per rendere davvero rilevanti le sovranità nazionali in un mondo che è un coacervo di contraddizioni, tra l’interdipendenza che è oggettivamente insuperabile e il rischio di frantumazione dei contesti di collaborazione politica.

Paradossalmente, una declinazione superficiale dell’idea di un’unione geopolitica può indebolire l’approccio pluralistico europeo e la capacità della Ue di dialogare con aree, contesti, modelli politici ed economici diversi, cristallizzando uno schieramento granitico di Bruxelles nella crescente competizione tra le grandi potenze. Per evitarlo, l’Unione Europea, invece di rappresentarsi in termini confusamente geopolitici, dovrebbe anzitutto operare una riformulazione politica, rendendo esplicita la propria funzione come attore internazionale.

E qual è questa funzione? La Grundnorm della politica estera europea, la sua caratterizzazione fondamentale, è scolpita nella Dichiarazione del ministro degli esteri francese, Robert Schuman: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche» (Parigi, 9 maggio 1950). Non è un caso che nel 2013 l’Unione Europea abbia ricevuto il Premio Nobel per la pace.

Ricordiamoci sempre di questo mandato che viene dalla storia, ma che deve tramutarsi in iniziative politiche a favore della pace. In una crisi profonda della sicurezza in Europa, l’Unione Europea ha una responsabilità primaria nel tentare di riconfigurare un quadro di stabilizzazione continentale attraverso una nuova formula politica.

Una cosa è certa: non ci può essere pace imposta. D’altra parte, la pace si fa in due e la si fa con il nemico. Ogni guerra deve finire, ma ogni guerra finisce in un modo diverso. Nella nuova condizione strategica e politica che si è determinata con l’aggressione russa all’Ucraina, una volta conclusa la tragedia bellica in corso, bisognerà riportare nel discorso politico quanto meno il linguaggio minimalista della coesistenza pacifica, per garantire un nuovo ambiente di sicurezza in Europa.

A un certo punto, bisognerà mettersi attorno a un tavolo e verificare se ci siano e quali siano i parametri per una pace veramente equa, sostenibile, duratura. Nella consapevolezza che, come avviene alla fine di tutti i conflitti, vincere la pace è assai più difficile che vincere la guerra.

Ovviamente le intenzioni pacifiche devono sussistere su entrambi i lati di questa equazione, e non solo a Bruxelles e nelle capitali europee. L’Unione Europea è un’entità politica con un ruolo essenziale da svolgere nel continente, e dovrà a tempo debito tornare a esercitare, quando le condizioni strutturali lo consentiranno, una funzione di potenza normativa e di esperimento riuscito di governance transnazionale, anche in chiave paneuropea.

La politica della pace è sicuramente indispensabile ma ben più urgente è la pace come politica. La pace come politica significa che il valore politico centrale è sempre la pace, e attraverso di essa sono concepite tutte le politiche, mentre la politica della pace è un esercizio di risoluzione dei conflitti che si aggiunge a tante altre priorità politiche. La differenza non è poca cosa: nel primo caso, le politiche sono racchiuse nel contenitore chiamato pace; nel secondo, la pace è racchiusa in un contenitore chiamato politica: una politica tra le politiche. Come disse Martin Luther King, «la pace non è semplicemente un obiettivo lontano che cerchiamo, ma un mezzo attraverso il quale arriviamo a tale obiettivo. Dobbiamo perseguire fini pacifici con mezzi pacifici» (Discorso al Nation Institute, Los Angeles , 25 febbraio 1967).

La pace come politica non è un’opzione astrattamente etica; molto più concretamente, è una necessità pratica, se non vogliamo ridurre il mondo in cenere, sia per la guerra atomica, sia per il cambiamento climatico.

La politica internazionale che conosciamo è anzitutto, nella sostanza, una politica interstatale, anzi talvolta una politica intergovernativa. I popoli, la dimensione della società civile internazionale, sono in gran parte assenti da questa definizione. Si parla ormai della necessità di una microfondazione delle relazioni internazionali, nel senso che persino questa dimensione, che potrebbe apparire fuori della portata della nostra esistenza di donne e uomini comuni e di cittadini ordinari, si basa, in fondo, sulle scelte, sulle azioni e sulle interazioni delle persone coinvolte.

Non si tratta di atomizzare la politica e persino la diplomazia, ma di collegarle alla realtà relazionale. Esiste una continuità (Apel) nella corresponsabilità etica e politica tra il microambito (famiglia, vicinato), il mesoambito (il piano della politica nazionale) e il macroambito (il destino dell’umanità).

La pace come politica non è un’opzione astrattamente etica; molto più concretamente, è una necessità pratica, se non vogliamo ridurre il mondo in cenere, sia per la guerra atomica, sia per il cambiamento climatico.

La pace non è utopismo mondialista. Bisogna essere pratici.

Quando nel 2015 sono arrivati i rifugiati siriani che fuggivano dalle guerre e dallo Stato Islamico, non hanno trovato il segretario generale delle Nazioni Unite (che merita tutto il nostro rispetto) ad accoglierli nei porti e nelle stazioni europee (e comunque non è quello il suo mestiere), ma la società civile e gli amministratori locali.

Lo stesso è accaduto per i rifugiati ucraini ai confini terrestri europei, anche se, per una crisi di tale dimensione, la presenza delle organizzazioni internazionali umanitarie rimane imprescindibile. In entrambi i casi, due eventi di primaria magnitudine per la sicurezza internazionale riguardano direttamente le persone e le società, sia in termini di effetti drammatici che in termini di interventi tesi a mitigarli. Una sorta di globalizzazione inversa: è il mondo che si fa territorio.

La pace non è un esercizio di mero volontariato irenologico, né un impegno solo individuale, ma un esercizio sociale, economico e istituzionale. Possiamo concepire la pace come una serie di cerchi concentrici, che vanno dalle persone alle formazioni sociali e politiche, ai livelli di governo territoriale, alle politiche estere degli stati, alle istituzioni internazionali.

Non significa sottovalutare l’orizzonte politico-strategico della pace, né sopravvalutare la portata dell’azione individuale o degli ambiti di socializzazione ristretti. Non si tratta né di internazionalizzare la sfera privata né di privatizzare la politica internazionale.

La sola politica realistica, se vogliamo un ordine duraturo e non semplici tregue tra guerre, è quella della pace che diventa un’infrastruttura estesa nelle relazioni internazionali, fondate su pratiche di corresponsabilità.

È l’ora di relazioni internazionali davvero più realistiche e meno ideologiche, più funzionali agli interessi di tutti e meno deleterie per i beni comuni globali.

Abbiamo bisogno di un «realismo utopico». Mentre nel breve termine è più probabile che si riproduca lo status quo (nessun cambiamento significativo), a lungo termine, invece, è spesso molto irrealistico immaginare una continuazione della situazione attuale. I possibili stati futuri della società, inclusa quella internazionale, che oggi consideriamo totalmente irrealistici, in prospettiva hanno spesso maggiori probabilità di materializzarsi rispetto allo status quo. Pensiamo alla caduta del Muro di Berlino, che nessuno aveva messo in conto, o alla stessa riconciliazione franco-tedesca dopo la seconda guerra mondiale, una mossa politica che alcuni decenni prima sarebbe stata impensabile e che è alla base della stessa costruzione europea.

Un realista utopico, quindi, è colui che ha una visione di ampio respiro, che ha il coraggio di lottare per idee e stati di cose desiderabili (non importa come siano le loro prospettive a breve termine), e che ha la consapevolezza che lo status quo è solo un fenomeno passeggero. Qualcuno ha scritto che con l’aggressione russa all’Ucraina la pace è finita. Per il realista utopico, invece, la pace è infinita.

Qui la prima parte della relazione

 

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