P. Maccalli, disarmare la parola per disarmare il cuore

Abbiamo intervistato padre Pier Luigi Maccali, missionario della Società delle Missioni Africane che ha vissuto il deserto e la prigionia, in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni domenica 21 aprile

Padre Pier Luigi Maccali, nato a Madignano (Cremona) nel 1961, è un missionario della Società delle Missioni Africane. È stato 10 anni missionario in Costa d’Avorio, 10 anni a servizio della missione con incarichi in Italia: animatore missionario a Padova dal 1992 al 1996 e consigliere provinciale a Genova dal 2001 al 2007; 11 anni in Niger nella missione di Bomoanga nel sud-ovest del Paese dal 2007 al 2018. Il 17 settembre 2018 il sequestro ad opera dei jihadisti del Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (GSIM). È stato tenuto ostaggio per oltre due anni nel deserto del Sahara, fino alla liberazione avvenuta in Mali l’8 ottobre 2020. Lo abbiamo intervistato in vista della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni.

Padre Maccalli, come è nata la sua vocazione?

Nei miei anni giovanili ho letto di testimoni che hanno vissuto in modo radicale il Vangelo. Tra questi il medico e missionario Albert Schweitzer e poi del vescovo Oscar Arnulfo Romero che hanno orientato la mia scelta di vita per la missione. Inoltre ho incontrato missionari che venivano a parlare della missione Ad Gentes durante il mio tempo di seminario; ma decisiva fu la scelta di mio fratello Walter di entrare alla SMA (comunità di missionari a Genova-Quarto) che mi ha fatto conoscere volti concreti di missionari che vivevano in comunità (come una famiglia) e partivano in missione in Africa alla maniera degli apostoli. Questo contatto fisico e spirituale con una comunità missionaria mi ha contagiato.

 

Papa Francesco, nel Messaggio per la Giornata Mondiale delle Vocazioni, scrive: «Siamo posti in cammino alla scoperta dell’amore di Dio e, nello stesso tempo, alla scoperta di noi stessi, attraverso un viaggio interiore ma sempre stimolato dalla molteplicità delle relazioni… incontrano». Può raccontare qual è stato il suo «pellegrinaggio interiore» nei due anni in cui è stato tenuto prigioniero? 

Ho descritto questo mio pellegrinaggio interiore nel mio libro Catene di libertà – per due anni rapito nel Sahel (edito dall’EMI nel 2021). Quando mi hanno messo in catene ho pianto e ho gridato a Dio, perché mi hai abbandonato? Perché queste catene? Ma per quanto paradossale possa sembrare, le catene hanno aperto il mio spazio libero. Mi son detto una sera mentre guardavo sconsolato i miei piedi incatenati: «I miei piedi sono incatenati, ma il mio cuore no! Farò come il fondatore SMA: sarò missionario dal profondo del cuore e porterò soffio di vita e preghiera a tutti». La preghiera del cuore è stato il mio spazio libero. Ho camminato col cuore e ho pregato per la pace e i persecutori della pace.

Ho ripreso questo tema della preghiera del cuore anche nel mio recente secondo libro, uscito a febbraio 2024 Liberate la pace – per vedere oltre i confini, in cui offro la mia rilettura di questa sventura. Il deserto e la prigionia mi hanno permesso di andare in profondità; scoprire che l’essenziale è la fraternità e che il vertice del Vangelo è amare i propri nemici. Ho perdonato chi mi ha rubato la libertà e mi ha messo in catene e l’ho anche detto l’ultimo giorno ad Abu Naser che mi accompagnava in macchina alla liberazione: «Che Dio ci dia di comprendere che siamo tutti fratelli». Gli ho offerto la mia mano tesa… sì, ho perdonato e oggi sono in pace. Questa sventura è stato un pellegrinaggio che ha cambiato il mio modo di pregare, di credere e di essere missionario.

Si può credere ancora oggi al perdono e alla pace quando attorno a noi sentiamo echi di guerra e vediamo tanto dolore innocente? Come è riuscito a perdonare chi l’ha tenuta in ostaggio?

È stato un cammino lungo 2 anni, ho vissuto 2 quaresime di vero deserto in cui ho meditato a lungo le 7 parole di Gesù in croce. Ce n’erano due in particolare che mi interpellavo in modo forte: una mi consolava e l’altra mi sfidava. Mi consolava ascoltare il crocefisso dire: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (interpretava bene il mio status di prigioniero abbandonato e dimenticato da tutti), e mi consolava perché mi dicevo: «Se l’ha detto lui, lo posso dire anch’io». Ma poi, Gesù in croce dice ancora: «Padre, perdona loro… non sanno quello che fanno». Questa parola invece mi sfidava al perdono.

Ho cominciato con il non giudicarli e poi a pregare per loro. Sono giovani/persone ferite nella loro storia/vita, in fondo i veri ostaggi sono loro. Sì, sono ostaggi dell’analfabetismo e prigionieri di una visione del mondo e delle relazioni ispirate solo da video di propaganda e da pregiudizi… li ho perdonati e mi sento in pace.

P. Maccalli e il fratello, p. Walter, anche lui missionario della Società delle Missioni Africane, attualmente in missione in Liberia.

 

Lei che ha sperimentato la solitudine nel deserto del Sahel, che messaggio darebbe a un giovane che oggi si sente smarrito e solo nel “deserto urbano” di una grande metropoli? 

Il più grande dono che ho ricevuto dal deserto è stato il silenzio. Ho scoperto che Dio è silenzio e che il silenzio è il modo di comunicare di Dio. Allora innanzitutto propongo profondità. Abitare il silenzio, uscire dal rumore per incontrare il Dio del Silenzio.

E poi propongo di disarmare la parola che infiamma tanta violenza nelle scuole, nello sport e nelle relazioni quotidiane. La parola è la scintilla che incendia ogni conflitto. Dalla parola si passa alle mani, ai pugni e se queste mani sono armate si arriva all’omicidio, al femminicidio o alla guerra. Disarmiamo la parola per disarmare lo sguardo e imparare a considerarci non come nemici ma semplicemente come “persone umane”. Disarmiamo la parola per disarmare il cuore e imparare ad accoglierci tutti come fratelli e sorelle.

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