Ovidio nel “mondo estremo”

Costanza, il grande porto sul Mar Nero, evoca la figura del poeta delle “Metamorfosi”, che lì morì in esilio. Ispirando ai nostri giorni, a un figlio dell’Australia, una metafora poetica e intrisa di tolleranza della condizione di quel lontano Continente
Monumento a Ovidio a Costanza

Importante porto della Romania situato sulla sponda occidentale del Mar Nero, centro industriale di grande rilevanza e meta, ogni anno, di milioni di turisti attratti dalle sue celebri terme e dalle sue spiagge, Costanza ha origini remote: è erede, infatti, della antica Tomi, colonia della provincia della Scizia fondata nel 500 a. C dai greci come base commerciale per gli scambi con le popolazioni della Dacia. Nel 29 a.C. l’intera regione fino al Danubio veniva conquistata dai romani, entrando a far parte dell’Impero.

Un mondo estremo, ostile, flagellato da gelidi inverni e popolato da genti rozze e barbare, in perpetua guerra fra loro: così lo descrive Ovidio, il frivolo e raffinato poeta elegiaco delle Metamorfosi, caduto in disgrazia presso Augusto e relegato a Tomi, all’epoca sperduto villaggio sulle rive del Ponto Eusino (il Mar Nero). La sua colpa: aver scritto la licenziosa Ars amandie, probabilmente, aver curiosato fra gli affari intimi della casa imperiale. Invano il poeta supplicò la clemenza dell’imperatore: gli toccò vivere i suoi ultimi anni ai limiti del mondo allora conosciuto, unicamente consolato dalla sua Musa che gli dettò ancora versi struggenti. All’incauto e sfortunato poeta è intitolata una piazza di Costanza, dove si erge una sua statua in bronzo, copia esatta di quella esistente a Sulmona, sua città d’origine (Sulmo mihi patria est). E ancora Ovidio è un nome frequentissimo in Romania.

La sua vicenda, che ricorda stranamente quella di Oscar Wilde, lui pure all’apice del successo in patria e poi malamente finito in Francia dopo lo scandalo del processo per sodomia, ha ispirato diversi scrittori. Ultimo, anche un regista: il francese Christophe Honoré, che ha presentato all’ultimo Festival del cinema di Venezia la sua versione attualizzata delle Metamorfosi ovidiane.

Per limitarsi alle opere letterarie, la più originale e suggestiva è senz’altro quella di David Malouf, scrittore di origini anglo-libanesi nato su suolo australiano, a Brisbane. Il suo romanzo Una vita immaginaria, pubblicato in anni recenti da Frassinelli, anche se ambientato a Tomi duemila anni or sono, va letto – osserva Franca Cavagnoli nella postfazione – «come una metafora della condizione australiana: la necessità per gli australiani di stabilire un rapporto “autentico” con il loro Paese e di comprendere la specificità della loro cultura».

L’esilio di Ovidio diventa infatti occasione per rimeditare una pagina fondamentale della storia di quel Continente, nato sulle sofferenze di migliaia di galeotti anglosassoni deportati nella colonia penale del Nuovo Galles del Sud, un “mondo estremo” anch’esso, dal paesaggio aspro e ostile.

Prima di morire deriso e incompreso in mezzo ai rozzi sarmati e geti con i quali gli era impossibile comunicare, Ovidio espresse il suo senso di abbandono nei carmi dei Tristia e nelle Lettere dal Ponto. Ma davvero le cose finirono così? Malouf immagina invece che il poeta sulmonese abbia trovato un’inattesa via d’uscita: l’amicizia con un misterioso ragazzo cresciuto fra i lupi (ovvero il compagno di giochi immaginario della sua infanzia) diventa per lui occasione di un “viaggio interiore” ricco di scoperte, quali neppure la sua fertile fantasia avrebbe mai immaginato.

Fra l’altro la lingua dei “barbari” fra i quali vive gli rivela «la vita primigenia e l’unità delle cose» ed è espressiva quanto quel latino emblema di “civiltà” che egli considerava «perfetto», mentre ora gli appare capace solo di «delimitare e separare». Ed è proprio grazie all’incontro con questo linguaggio fortemente evocativo che egli può aprire finalmente gli occhi sulla realtà circostante.

Dall’accettazione del luogo dell’esilio come sua nuova patria esce un Ovidio diverso, che non ha più nulla in comune con «i graziosi miracoli dell’ovvio» di cui è stato cantore: lui stesso, l’autore delle Metamorfosi, ne esce trasformato come per una rinascita spirituale, pronto ad accomiatarsi dalla vita riconciliato con sé stesso e con la natura. Elemento quest’ultimo, commenta la Cavagnoli, «assolutamente nuovo nella letteratura australiana, caratterizzata non solo da forme di alienazione dalla società ma anche da un’impossibile comunione con la natura».

Quella che Malouf, per bocca di Ovidio, ci dona è pertanto un’appassionata dichiarazione d’amore per il linguaggio come strumento di comunicazione, e una grande lezione di tolleranza e convivenza civile. Per la storia, purtroppo, le cose non sono andate così. Ma è bello immaginare, riguardo al nostro poeta, un altro destino.

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