Out e down: la chiave per capire la Cop26
Le conclusioni della Cop26 hanno portato alla ribalta, secondo un copione imprevisto nella sua apparente contraddittorietà, l’India di Narendra Modi. Come ribadito chiaramente a più riprese dai vari media, è stato infatti il ruolo giocato da due giganti asiatici – anche la Cina accanto all’India – a limitare il tanto atteso e sperato successo di quella che è stata definita l’ultima chiamata per salvare il pianeta dall’autodistruzione che pare inarrestabile.
L’ultima giornata è stata davvero paradossale. Alok Sharma, politico inglese, ma di chiare origine indiane – è infatti nato ad Agra, la città del Taj Mahal – ha dovuto assumersi la responsabilità di annunciare il successo limitato della grande assise mondiale sul clima. Il tutto si è giocato, in un momento di stallo assai pericoloso, sulla sottigliezza dello scambio di preposizione da abbinare ad un verbo.
Dalla proposta di phase out – cessare – la produzione di energia proveniente da fonti fossili, alla formula finale phase down – rallentare o limitare –, che è stata poi votata. Cina e India si sono trovate d’accordo su questa soluzione perché ricche di carbone e, tutt’ora, dipendenti dall’energia che proviene dalla combustione di questa fonte ormai evidentemente causa principale – anche se non è la sola – della drammatica situazione del pianeta.
Ma il paradosso emerge quando a dover annunciare questa soluzione finale è proprio un ministro britannico di origine indiana e, allo stesso tempo, si viene a sapere che la capitale dell’India – New Delhi – è in una sorta di lockdown a causa dell’aria irrespirabile, avvolta nella nebbia da inquinamento. Le cose si complicano ulteriormente quando si tiene conto che, nonostante la soluzione di compromesso condivisa ma anche imposta da Modi, il governo indiano ha concesso l’approvazione a 55 nuove centrali a carbone e che anche la Repubblica Popolare Cinese ne ha approvate quasi altrettante in tempi recenti.
Un panorama di questo tipo è di difficile comprensione, carico com’è di contraddizioni almeno apparenti. Innanzi tutto, è necessario chiarire che il grande inquinamento che avvolge Delhi non trova nel carbone l’unica causa ed il colpevole sul quale puntare il dito. Ovviamente le combustioni ne sono l’origine principale, ma non solo il carbone. Non si deve dimenticare che il tasso di piombo nelle benzine indiane è ancora molto alto rispetto a quello rintracciabile nel combustibile in commercio in altre parti del mondo.
Una seconda causa è poi da ricercare nella recente festa di Diwali, il capodanno indù, la festa delle luci che viene tradizionalmente festeggiato con scoppi di petardi e di fuochi d’artificio che continuano per giorni e notti, rendendo l’aria irrespirabile. Dai grandi slum della capitale, poi, come in tutti quelli delle città e metropoli indiane, salgono fumi prodotti dal cow-dung, gli escrementi di mucca e bufalo, impastati con paglia che, dopo essere stati fatti seccare, costituiscono il combustile giornaliero dei poveri, che ne fanno uso per alimentare il fuoco sia per cucinare che per riscaldarsi.
Ed ancora, negli stati del Punjab e dell’Haryana, nella zona che circonda New Delhi, durante la stagione successiva alle piogge, che corrisponde al nostro autunno, i contadini bruciano per chilometri e chilometri quadrati stoppie nei campi di granoturco e di canna da zucchero, creando nuvole di fumo che si uniscono a quelle delle cause di cui si è appena accennato.
Infine, bisogna tener conto che quando i due sistemi monsonici che attraversano il sub-continente fra maggio e novembre arrivano al termine, si crea una stagnazione a valle della catena dell’Himalaya. Tutte queste cause determinano la catastrofe ambientale che minaccia milioni di vite nel nord India.
Ogni anno, si calcola che il 18% dei decessi sia causato dall’inquinamento atmosferico e che nel 2019 siano stati un milione e settecentomila le morti riconducibili a questa causa. Fra l’altro, la capitale indiana non è l’unica città a lamentare una situazione in cui si chiede alla popolazione di non uscire di casa se non per motivi di estrema necessità, si devono chiudere le scuole e si distribuiscono e consigliano mascherine antismog.
Fra le 30 città più inquinate del mondo ben 22 sono in India, anche per via della popolazione che qui, come in Cina, continua a crescere contribuendo, anche, alla formazione di metropoli mostruose che arrivano fino ai 22-23 milioni di abitanti di Delhi, Mumbai, ecc.
Dunque, un panorama complesso, oltre che nebbioso. La limitazione o, anche, la cessazione di produzione di energia proveniente da fonti fossili, non risolverebbe interamente il problema, sebbene sarebbe un passo avanti decisivo sia per il sub-continente che per il pianeta, vista la concentrazione di popolazione in questo angolo di mondo, tenendo conto anche della vicina Cina.
Non dobbiamo, tuttavia, dimenticare un’altra questione, che poco ha a che fare con le risorse energetiche e con il loro uso. Si tratta di un problema ben più profondo, etico e di atteggiamento, già emerso nei decenni scorsi con le varie proposte di limitazioni delle armi nucleari. Questi Paesi, infatti, si sono trovati per lungo tempo alla mercè di una politica mondiale dettata dall’Occidente, che non ha cessato di sfruttare risorse naturali, economiche ed imporre leggi e norme internazionali a proprio favore.
Gli equilibri sono oggi cambiati e, volenti o nolenti, i Paesi che per secoli si sono considerati alla guida del mondo e che, ancor oggi, di fatto si sentono i grandi del pianeta devono fare i conti con la sensibilità di queste nuove potenze mondiali. Fino ad oggi non possiamo nasconderci che l’inquinamento del pianeta e la sua progressiva distruzione è avvenuta per lo sviluppo indiscriminato causato dalla parte progredita del mondo senza farsi troppi scrupoli per la situazione altrui. Anche se oggi tutti rischiamo la distruzione, India e Cina fanno la voce grossa su molte questioni – armamenti nucleari, ambito energetico e situazione ecosostenibile del pianeta prima di tutto – mettendo in chiaro e imponendo condizioni che rallentano processi a favore di tutti. Non dimentichiamoci che nemmeno troppo tempo addietro l’amministrazione Trump o quella di Bolsonaro in Brasile hanno negato la necessità di porre limitazioni nella produzione di energia con conseguenze ambientali.
Ecco, quindi, spiegate – anche se forse non a sufficienza – le contraddizioni che pesano sulla Cop26. Si capiscono anche le lacrime di Alok Sharma: proprio un inglese di origini indiane ha dovuto concludere un evento drammatico con soluzioni finali in stato di stallo fino all’ultimo momento. Tutto quanto ho cercato di descrivere rappresenta un problema grave, di cui tutti potremmo pagare il prezzo, ma mette in evidenza che ci sono situazioni che vanno al di là di numeri, statistiche e proiezioni. I numeri e le previsioni, sia pur gravi, non devono farci dimenticare che l’ethos di culture e Paesi lontani dall’Occidente, ma ormai decisivi a livello globale, è estremamente sensibile e sottile, come ci rivelano quelle due piccole preposizioni, out e down, che hanno determinato la parzialità del successo che ci attendevamo dalla Cop26.