Oui, je suis Aznavour
A volte ritornano. Quei pochi ancora degni dell’aggettivo grandi, intendo. E con loro spesso resuscita la classe, riemergono ricordi polverosi e suggestioni antiche, ma ancora capaci di scuotere le abulie dei contemporanei.
Charles Aznavour grande lo è stato davvero, e continua ad esserlo, almeno a giudicare da questo album e dalla tournée che l’ha restituito al pubblico dopo decenni di astinenza. Un ritorno da tutto esaurito nei teatri più blasonati e per le platee più sofisticate d’Italia dove il nostro ha sempre goduto di popolarità pari alla Francia.
Scoperto da Edith Piaff negli anni Cinquanta, più di mille canzoni in repertorio, il “Sinatra di Francia” alla musica ha dato tanto, e dalla musica ha avuto tutto. Quando uno così torna sulle scene, ad ottantacinque anni suonati (!), non lo fa certo per noia né per bisogno di soldi o di gloria. Lo fa perché da qualche parte del proprio intimo ancora vibra la passione per il proprio mestiere e/o la necessità di sfuggire alle teche asettiche dove solitamente si rinchiudono i miti. E lo fa rischiando molto, perché c’è sempre la paura d’appannarlo o di sbrecciarlo, quel mito.
Un rischio calcolato il suo, perché questi ultimi anni non li ha certo passati solo a sollazzarsi in un buen retiro per stelle impagliate. Ha semplicemente centellinato le sue esibizioni preferendogli spesso il ruolo di ambasciatore e di testimonial della sua vera e martoriata patria, l’Armenia.
In ogni caso, rieccolo. Dal vivo era supportato da una giovane band cosmopolita messa insieme con la figlia Katia, qui lo troviamo con la prestigiosa Clayton Hamilton Jazz Orchestra: un ensemble californiano di gran lusso per dar smalto a una voce ancora capace di regalare fremiti ed emozioni: con la classe inalterata degli chansonnier dei bei tempi andati e quell’aura confidenziale e sorniona di tutti i crooner imbiancati dagli anni. Soprattutto la nonchalance di chi ne ha viste, fatte e metabolizzate troppe per non sapere che le cose importanti della vita non sono né i dischi, né le tournée, neppure quelle più attese.
Per chi non ha potuto goderselo dal vivo, diciamo subito che l’azzardo è più che riuscito e che il disco ha tutto ciò che occorre per mandare in sollucchero non solo i nostalgici della sua generazione, ma anche parecchie centurie di giovinotti nauseati dalle plastiche del pop o semplicemente vogliosi di scoprire altri mondi sonori. Già, perché queste canzoni racchiudono un mondo, un piccolo mondo antico, ma restituito intatto al presente in tutto il suo splendore. Canzoni gravide, grondanti di ricordi dove il francese s’adagia con calcolata teatralità sui velluti del jazz orchestrale. Canzoni come oggi sempre più raramente si compongono: note, parole ed atmosfere soprattutto, che evocano i languori di certi nottambuli transalpini, l’intimità di piano-bar eleganti e demodé, di sussurri e approcci sentimentali che oggi quasi più nessuno vuole o sa più praticare.
Il buon vecchio Charles è tornato. E queste canzoni ci dicono che ne aveva, se non il dovere, facoltà, e anche tutto il diritto.
CD NOVITA’
Mina
Facile
(Pdu)
Precisa e puntuale come un orologio svizzero. Sempre uguale a sé stessa, ma ogni volta diversa di quel tanto che serva a non passare per replicante. Da anni i suoi non sono dischi, ma esercizi di stile e fors’anche di sopravvivenza. A volte buttati lì come fossero le rondelle di una ferramenta, ma che quasi sempre posseggono la cura del dettaglio del manufatto artigianale. Neppure questo “Facile” fa eccezione. Imprescindibile per le sempre sterminate milizie dei minofili, routinario per i detrattori, semplicemente gradevole e ben fatto per tutti gli altri, che – al pari del sottoscritto – sanno che Mina questa è e continuerà ad essere, e tra il prendere e il lasciare anche stavolta si dicono: «… E perché no?».