Otello a Roma
Aveva 74 anni Verdi, quando, dopo anni di silenzio, scatenava alla Scala un uragano terrificante aprendo il suo Otello. Energia indomabile, cura estrema della parola – i versi “ricciuti”, estetizzanti e talora ingombranti di Boito −, raffinatezza orchestrale, canto ariosamente declamato. La forza, la penetrazione psicologica intatta.
Certo, la gelosia è il motore di tutto e Jago, blasfemo e cupo, ne è l’incarnazione maligna. Distruggerà l’amore dell’eroe Otello e della innocente Desdemona, lentamente, goccia a goccia. Un dramma straordinariamente sempre attuale.
Verdi si butta dentro, si rinnova pur rimanendo sé stesso e dice la sua ultima parola, tristissima, sul cuore umano. L’opera, è noto, contiene momenti molto forti e belli, specie l’ultimo atto di morte, commosso, silenzioso, pieno di compassione per la fine dell’amore da parte del vecchio Verdi.
Per un tale lavoro, ci vogliono cantanti-attori giusti. Difficile trovarli, che non urlino in modo “veristico”, come già Verdi ha sperimentato a suo tempo, specie per le voci maschili. A Roma l’allestimento è bello, una gran scena di architettura cinquecentesca brunita, essenziale, attraversata talora da nebbie, venti, come dei fantasmi in un aleggiare di morte.
Giusta la regia misuratala di Allex Aguilera, un regista che ha studiato canto lirico, e lo si vede: i cantanti non sono sottoposti a prove d’azione che li snervano, per fortuna. Così abbiamo ascoltato il secondo cast con le voci appropriate del soprano Vittoria Yeo, del baritono Vladimir Stoyanov e del tenore Marco Berti, forse non del tutto a suo agio nel ruolo.
Daniel Oren dirige vulcanicamente l’orchestra – col rischio di coprire talora le voci e anche di un po’ di retorica – ma la “buca” risponde molto bene, specie le percussioni, gli ottoni e i contrabbassi. Oren è un entusiasta e lo si vede, anche nei momenti delicati e belli. Spettacolo dunque positivo − il coro in forma − nel complesso, di un lavoro che andrebbe riproposto più spesso. Repliche fino al 12.