In ospedale un tocco d’amore
Apro gli occhi. Una pallida luce. Si avvicina il mattino…Mi guardo intorno e tutto riaffiora nella mia memoria anche se lentamente. Sono in uno stanzone di ospedale con quattro letti nei suoi quattro angoli. Il mio è opposto alla porta di entrata e vedo persone che entrano ed escono. Camici bianchi e no.
È qui che sono arrivata ieri sera dopo un’avventura che non dimenticherò facilmente.
Un malore, il 118, l’arrivo in ospedale, i primi esami. Ho ancora negli occhi il sorriso della giovane infermiera che mi accoglie.
Poi la notte in un’altra stanza. Nel buio mi assopisco fino all’alba.
«Niente Covid». Posso passare ad un’altra parte della struttura in cui mi trovo. Così mi spiegano. C’è un bel gruppo di persone, i letti non sono lontani, si può parlare. Lo faccio con una giovane signora che sta alla mia destra. Abbiamo tanto in comune nella nostra vita, aiutare il resto del mondo.
Ora un medico deciderà il da farsi. Attendo con un po’ di ansietà. All’improvviso viene un sacerdote che vorrebbe donare l’Eucarestia a chi la desidera, ma c’e troppo andirivieni. Gli consiglio di dire il Padre Nostro e qualcuno lo recita con noi.
Ed eccomi subito dopo in un’altra struttura dove mi attende il colloquio con il medico, molto serio ma non duro nelle sue domande sulla mia vita dal punto di vista medicinale. Racconto tutto quello che so e quanto ho vissuto nei giorni precedenti.
Sono accompagnata da un’amica che assieme a me viene informata che è bene mi fermi per ulteriori esami dove mi trovo: al Policlinico Universitario Umberto I di Roma. Universitario, penso che da queste parti molti anni fa ho studiato alla Sapienza. Certo non Medicina ma Scienze Politiche.
Eccomi qui, mi dico, avanti con coraggio. In situazioni difficili mi sono sempre affidata a Maria e così faccio anche ora e so che con il suo abbraccio ce la farò.
Volgo lo sguardo alle tre persone che sono negli angoli della stanza assieme a me. Non ci si può parlare per la distanza, ma cerco di salutare alzando una mano e sorridendo, ma non so se mi vedono.
È l’inizio di una settimana che non dimenticherò. Paura? Solitudine? Insonnia? No, c’è tanta pace in questa grande stanza. I movimenti di chi ci circonda per le cure richieste sono pieni di delicatezza, confesso che non me lo aspettavo. Io sono abituata a sorridere a tutti, ma qui sorridono prima a me che io a loro.
La parola Policlinico mi ha sempre fatto paura, non so neanche perché, ma qui mi trovo a mio agio perché vengo “curata” come una persona che è simile a tanti e allo stesso tempo è unica.
Una mattina, arrivata da poco, mi rendo conto che potrei telefonare a casa con il mio telefonino e dare mie notizie ogni giorno. Ci provo, ma non mi funziona. Purtroppo di telefonini non me ne intendo. Ed ecco vedo uno dei giovani curanti. Con coraggio lo chiamo e gli chiedo se può aiutarmi, con un po’ di timidezza perché non è certo il suo compito aggiustare i telefonini. Lo fa subito e con tanta benevolenza. Un atto di carità.
Passano i giorni ed il cuore mi si riempie sempre più di gratitudine per tante persone che aiutano l’umanità.
Questa la mia esperienza che ho pensato di condividere perché quello che si presentava come un incubo al mio arrivo è stato un momento di indimenticabile pace.
Poi viene l’ora di partire, saluto le mie vicine di letto. Anne e Nancy, che saranno mie compagne nella quarantena, sono pronte a portarmi a casa … tutto bene.
Ora avanti, ma i giorni al Policlinico resteranno sempre nel mio cuore perché ho sperimentato che dovunque si può trovare un tocco profondo d’amore.