Osh, il Trono di Salomone
Una città antichissima del Kirghizistan, la tradizione islamica, le tre alture, il museo di Salomone, un'imponente bazar.
Che cosa ci sia di interessante a Osh appare evidente sin dall’arrivo nella città, guardandola da lontano. Perché al centro di essa non c’è una piazza o un monumento, e nemmeno un qualsiasi palazzo presidenziale, ma una grande roccia. Anzi, una triplice roccia, il cosiddetto “Trono di Salomone”, la cui storia è conosciuta, ma che mi piace qui riportare per il lettore.
La città in effetti è antichissima, risale addirittura al V secolo a.C., forse per la sua posizione nevralgica: i suoi abitanti dicono che «Osh è più antica di Roma». E si attribuisce niente meno che a re Salomone la sua fondazione: Salomone, cioè Suleyman. In realtà fu Zahiruddin Babur, re di Fergana e futuro fondatore della dinastia moghul in India, a farvi erigere una moschea, in quanto una tradizione islamica antichissima vuole che il Profeta stesso si fosse fermato una volta a pregare in questo luogo.
Tra distruzioni e attentati (uno di essi quasi sicuramente era stato provocato ad arte dal Kgb per interrompere il continuo flusso di pellegrini musulmani), ora la devozione popolare può manifestarsi in piena libertà, al punto che una nuova grande moschea viene costruita proprio in questi mesi ai piedi del rilievo.
Ed è proprio dal Trono di Salomone che abbordo la città. Fa un caldo da morire, dicono si siano raggiunti i 42-43 gradi, e la temperatura non è delle più sopportabili per via dell’umidità che si fa sentire non poco nella Valle di Fergana. D’accordo, i primi cento metri di ascesa al trono avvengono in auto, ma al di là di un certo punto si è obbligati a proseguire a piedi. E a piedi vuol dire salire dei gradini.
Già disperando d’arrivare al culmine del rilievo roccioso, un’inaspettata benedizione viene a salvare salute e pace interiore: la salita conduce infatti in una sorta di caverna da cui fuoriesce a fiotti una frescura invitante. È l’ingresso del cosiddetto Museo di Salomone, che in realtà non mi assicurerà un grande aumento delle conoscenze personali, rivelandosi una collezione abbastanza sconclusionata di reperti archeologici, animali impagliati, cimeli delle religioni tradizionali sciamaniche.
Si sale nel ventre della roccia, nella penombra tipica dei musei sovietici dovuta alla scarsa illuminazione e alle decorazioni scure. Quest’oggi mi fa un gran piacere, non lo nego. Finché emergo in un’enorme apertura rotonda chiusa da una altrettanto imponente vetrata di dubbio gusto, che non si sa bene che cosa rappresenti.
Ma non è finita qui. Slalomando tra gruppi di visitatori che si vogliono far fotografare nel sito dei loro sogni – sia kirghisi che uzbeki sono coinvolti nell’operazione –, mi dirigo infatti alla successiva altura, la terza e ultima, quella a picco sul centro della città. Improvvisamente le pietre cominciano a diventare scivolose al punto da impedire una corretta deambulazione sul costone roccioso.
Ne chiedo la ragione a una graziosa donna sulla trentina, denti d’oro e tunica pure d’oro, e blu. Si sta rialzando, dopo essersi trascinata un po’ goffamente sulla roccia. Parla un po’ di francese, suo fratello vive a Lione, è medico, sono uzbeki: «Proprio in questo posto, secondo la tradizione millenaria – mi spiega –, si recano le donne che non riescono ad avere figli per invocare Dio affinché conceda loro la grazia della maternità. E lo fanno portando doni e offerte, ma soprattutto strisciando con tutto il loro corpo su quelle pietre, quasi a voler trasformare in carne quel fisico di pietra che non vuole saperne di diventare fecondo. Anch’io sono sterile», ammette. Lo stesso rilievo montuoso del Trono di Salomone, visto da una certa distanza e da una certa prospettiva sembrerebbe la silhouette di una donna incinta.
Ma si sale ancora, fino allo sperone roccioso che permette una vista senza eguali sul mare grigio della città, grigio per l’eternit dei tetti, mentre appaiono all’orizzonte montagne di ogni altezza e dimensione. Due o tre minareti interrompono la monotonia della città, dal cui ventre sale un rumore che non so definire, un mix di gracchianti altoparlanti che sparano musica d’ogni tipo e il vociare continuo della città che mercanteggia da mane a sera.
Ma non c’è tempo, la discesa mi attende, l’ennesima interminabile scala: calcolo come, salendo e scendendo dal Trono di Salomone, alla fine di gradini ne avrò calpestati un migliaio. Quelle scale che, per le foto di rito, percorrerà anche la sposa che ai piedi della scalinata indovino sotto un velo che le copre totalmente la figura e il viso, in attesa della cerimonia. Un velo trapuntato di lustrini, pacchiano come pochi, ma tant’è. Lì accanto, il promesso sposo attende il momento di mostrarsi, chiuso nella sua limousine senza fine che qui non si può non affittare per la cerimonia più importante della vita. Dove sia l’Islam non lo so, ma da qualche parte c’è.
Il resto di Osh è un imponente bazar, imponente nel senso della vastità. Vi si trova di tutto, i luoghi brulicano di gente, nella classica suddivisione degli spazi che segue un preciso codice merceologico che talvolta mi sfugge: perché, ad esempio, la frutta deve trovarsi accanto ai vestiti e non alla verdura? Ma tant’è, come sempre l’immersione in un mercato del genere è esperienza visiva, olfattiva, tattile, sonora e gustativa. Tutti e cinque i sensi sono messi a dura prova a Osh.