Orsini grande inquisitore

Debutta al Piccolo Eliseo di Roma “La leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij, nell’interpretazione dell’attore Umberto Orsini
Umberto Orsini

Il nome di Umberto Orsini è anche legato, nell'immaginario collettivo di una certa generazione, ad una famosa interpretazione del giovane Ivan Karamazov nel romanzo sceneggiato degli anni Settanta diretto da Sandro Bolchi per la televisione Italiana. In quella trasmissione il punto forse più memorabile era il pezzo comunemente noto come "La leggenda del Grande Inquisitore" che Ivan raccontava al fratello Alioscia nel disperato e appassionato tentativo di spiegare i dubbi che tormentavano la sua anima di miscredente. Orsini si calava in quell'episodio nei panni del Grande Inquisitore assumendone le parole senza cambiare l'aspetto fisico che era allora quello di un giovane russo appassionato ai problemi della fede. Partendo da questa memoria, Orsini ripropone oggi quello strepitoso passaggio di Dostoevskij approfittando della sua maturità per darne una lettura che tiene conto della contemporanea presenza in scena dell'ideatore della leggenda, vale a dire il giovane Ivan Karamazov, e del prodotto della sua fantasia, vale a dire il vecchio Inquisitore, entrambi interpretati dallo stesso Orsini tra memoria e finzione, tra nostalgia e sofferenza, srotolando il suo suggestivo nastro di Krapp in chiave dostoevskiana.

Orsini, che ricordo ha di quell’epoca e di quella interpretazione?
«Vivo da quarant'anni col Grande Inquisitore di Dostoevskij, da quando cominciai ad occuparmene in occasione del romanzo sceneggiato per la Rai -Tv e che fu seguito da più di venti milioni di persone per otto settimane di seguito. Qualcosa di inimmaginabile oggi. La televisione aveva allora solo due canali in bianco e nero e gli spettatori dovevano prendere o lasciare. Non c'era via di scampo».

In quel caso furono fortunati perché quel romanzo, "I Fratelli Karamazov", resta uno dei più felici realizzati in quegli anni…
«Devo dire che rivisto oggi (è uscita un'edizione in DVD edita da Rai Trade, ndr) resiste gloriosamente, nonostante i gusti degli spettatori siano mutati con l'avvento del colore, delle tecnologie e con i ritmi di racconto che negli anni seguenti sono stati praticati nella fiction televisiva. Interpretavo il fratello Ivan e per anni mi sono sentito dire da generazioni di spettatori che venivano ad incontrarmi nei camerini dei teatri in cui recitavo: "Ma quell'Ivan Karamazov! Ma cose così perché non ne fanno più?", sentendo nella loro voce un rimpianto e soprattutto una memoria sorprendenti».

Questa citazione personale è una premessa necessaria per spiegare da dove parte lo spettacolo che presentate…
«Sono anni ormai che il romanzo "mai scritto " da Ivan e raccontato al fratello Alioscia, e cioè "La leggenda del Grande Inquisitore", viene citato come un pezzo di letteratura tra i più corrosivi fra quanti scritti da Dostoevskij, e allo spettatore informato non saranno sfuggiti i saggi scritti sull'argomento da Gustavo Zagrebelski, da Franco Cassano o da Gerardo Colombo per segnalare i più recenti. Nel romanzo televisivo quel frammento durava una cinquantina di minuti ed era risolto in modo molto intelligente da Diego Fabbri che ne aveva curato la sceneggiatura».

Infatti faceva incontrare Ivan e Alioscia in un ristorante…
«Già. E parlando come usualmente i giovani russi dell'Ottocento facevano di problemi di fede, di libertà, di armonia, di coscienza, di filosofia o altro, si infervoravano con una passione dialettica che molto probabilmente oggi è riscontrabile tra i giovani solo in rari casi e probabilmente intorno a soggetti meno impegnativi. In quell'ottica Ivan si esaltava raccontando di un romanzo che aveva in mente di scrivere e citava ad Alioscia dei passaggi del testo identificandosi nel suo protagonista al punto da assumerne spesso voce e toni apocalittici che poi spezzava con cambi di intonazione, ammettendo che così avrebbe parlato il suo personaggio».

E quindi come restituite oggi, in palcoscenico, quella scena senza ripeterla così come fu felicemente concepita?
«Quella era una storia tra un ventenne e un trentenne. Quelli erano Karamazov. Quella era la Russia della fine Ottocento. C'era l'aria corrotta di una famiglia maledetta che avrebbe partorito un delitto. Lì c'era l'ateismo di Ivan, la fede di Alioscia, la presenza del demonio, la critica dell'autore a un sistema ecclesiastico usurpatore di un'autorità che avrebbe dovuto avere connotati più umani. Oggi? Cosa abbiamo immaginato? Quale contenitore abbiamo scelto? Come far ripetere ad un personaggio (che non è mai esistito se non nella fantasia dell'autore) certe parole? Come mettere sul tappeto una storia senza poi commentarla, senza arrivare a dire: "Segue poi dibattito"? E allora abbiamo immaginato un Ivan vecchio (la mia età) e un figlio che nel romanzo non c'è, ma che ci potrebbe essere come figlio-demone, figlio tentatore, figlio Mefisto, che cerca di tentare il vecchio Ivan-Faust con la possibilità di dire quelle parole del Grande Inquisitore oggi, davanti alla platea di Ted Conference, un luogo non virtuale dove in diciotto minuti oggi uno può tentare di dire qualcosa che vale la pena di essere raccontato. E tutte le scene che precedono questo racconto non sono che una esemplificazione a volte fulminea, a volte più elaborata di quei temi (libertà, fede, mistero, autorità, speranza, fame,  ecc.) che sono contenuti nel racconto che, finalmente, dopo tanti anni, Ivan fa davanti al pubblico, come se il personaggio avesse finalmente scritto il suo romanzo. E il fatto più unico che raro che la mia immagine giovane (quella dello sceneggiato che si identifica con me) possa apparire come sogno di una gioventù perduta, di un desiderio represso, di un patto che sa tanto di "reality" rendono le cose leggermente più intriganti, spero».

Le parole del Grande Inquisitore oggi a chi potrebbero far paura?
«Alcune persone della Chiesa, o l'autorità, o il potere tout court, agiscono ancora come il vecchio inquisitore sosteneva essere l'unico modo che permettesse agli uomini di essere liberi attraverso la negazione della libertà? Viviamo nella stessa illusione? Non voglio raccontare di più. Vorrei che il pubblico facesse lo sforzo di raccordare da solo i frammenti gettati qua e là costruendo il suo percorso mentale, ascoltando, guardando, semplicemente, come avviene a teatro».

Al teatro Piccolo Eliseo di Roma, fino al 9 dicembre, per la regia di Pietro Babina e con, accanto a Orsini, Leonardo Capuano.
 

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