Orlando è ancora “u sinnacu”
Le occhiaie disegnate sul volto rivelano l’assenza di sonno, ma i toni sono quelli del leone che ha riconquistato il suo territorio, quelle zolle che conosce palmo a palmo nelle sue oasi e nelle sue sacche di miseria. Sa che il suo ruggito ha fatto arretrare quella belva sempre in agguato che si chiama mafia, che sa sempre avvinghiare e graffiare a sorpresa. Ma il leone – per quanto avanti negli anni – non ha fermato la sua corsa, né si è lasciato intimorire; ed è tornato sullo scranno più alto della città, è tornato “u sinnacu”. Perché Leoluca Orlando è sempre rimasto questo per Palermo: il sindaco. Anche quando è diventato deputato europeo e nazionale, anche quando è tornato a fare il professore. A Palermo “u sinnacu” è solo lui, che per la quinta volta – come ha sottolineato una collega giornalista del Tgs (telegiornale regionale) – «ha sedotto questa città»; e lui ha confessato di non riuscire a liberarsene perché «è la mia esperienza di vita, la mia missione umana, fonte di enormi sacrifici anche per i miei sentimenti, ma non riesco a lasciarla e mi commuovo al pensare che non sarà più capitale della mafia, ma nel 2018 sarà anche capitale della cultura».
Orlando è consapevole che l’ultimo mandato non è stato scintillante ed è conscio di aver percorso «solo 45 km dei 100 che si era prefisso», soprattutto nel ramo dei trasporti e in quello dell’igiene in città; ma il leone non molla la preda e non distoglie lo sguardo dalla meta. Anzi. A chi gli rimprovera di non avere l’età, risponde che il passo lo tiene e non teme «né gli apparati politici chiusi in se stessi, dove i riti non convincono e non affascinano»; e neppure «i velleitaristi e ribellisti incapaci di dare risposte concrete alla gente».
Attacca a testa alta, come sempre, con quel cipiglio da bulldozer con cui si trovò a governare negli anni delle stragi e che neppure i capelli grigi sembrano aver placato. Sa che la sua città è sempre stata un laboratorio di sperimentazioni politiche e un progetto sempre in movimento: lo fu la Rete e oggi vuole esserlo il “civismo politico”, che è l’esperienza di questi mesi di campagna. È nella vocazione politica di Orlando osare e sperimentare nuovo, e il «modello Palermo salda in un rapporto forte cittadini e politica dove è fondamentale un progetto chiaro e credibile, aperto al mondo, in cui partito di riferimento si chiama Palermo per un sindaco, Sicilia per un presidente di Regione, Italia per un Presidente del Consiglio».
Nella foga delle parole delle sue prime dichiarazioni sfugge ai più un’espressione insolita sulla bocca del leone: «per amore della città sposto in avanti l’asticella». Per amore. Era l’amore per Palermo che lo aveva spinto con l’amico Roberto Mazzarella, nostro collega, ed altri a pensare alla Rete, quel movimento politico che partì da una città martoriata e si allargò al Paese. La fine non fu gloriosa, perché i partiti fagocitarono quel nuovo che divenne sterile e soffocante appartenenza.
Ho ripensato, nella festa della vittoria di oggi, a quanto Roberto scriveva di quel momento fondante, trasferendolo letterariamente ad un dialogo tra amici nel libro postumo Vento di Scirocco. «Far nascere un movimento politico alternativo a tutto il sistema di partiti non solo aveva presa e raccoglieva entusiasmi sempre crescenti ma, addirittura, come dire, scioglieva ghiacciai politici ritenuti fino ad allora assolutamente ben saldi. Certamente la voglia di cambiare la si toccava con mano, tanti lo chiedevano a gran voce, stava tornando la voglia di partecipare, di spendersi in politica. In effetti tante persone erano state ripetutamente mortificate e scientificamente messe ai margini dal sistema asfissiante dei partiti. E adesso, non appena veniva delineata un’idea di aggregazione trasversale, l’entusiasmo cresceva di attimo in attimo come se queste persone aspettassero da tempo un messaggio del genere, e non era difficile capirsi con la gente comune, con quella che viveva nel volontariato, nella società civile».
Chi conosce Palermo, Roberto e Orlando sa che quello è un virus che è stato iniettato nelle vene della città e che non è morto e forse il “civismo politico”, vorrebbe segnarne una rinascita?. Certo è che di quella “rivoluzione gentile”, vissuta con intensità, Palermo non si è dimenticata: perché quella rivoluzione le fece toccare l’amore, e la fece sentire amata anche se imbrattata dal sangue della violenza. Ora spetta al sindaco ricambiare, non solo con progetti credibili e attenti agli ultimi, ma esercitando una paternità che crei futuro e fiducia e non lasci solo la nostalgia di ciò che è stato. Auguri “sinnacu”!