Orizzonti larghi

In questi anni di crisi economica e di incertezza diffusa legata ai conflitti militari in corso, agli scandali finanziari (Parmalat, Cirio, Enron, WorldCom, Argentina, sono solo la punta di un iceberg di proporzioni allarmanti) e all’acuirsi di vecchie e nuove povertà, nasce un rinnovato bisogno di comprendere la direzione, il senso ultimo del nostro agire economico. Quando la creazione di ricchezza si trasforma da mezzo a fine, diventano evidenti i sintomi di una grave degenerazione del modello di sviluppo. Non è superfluo allora interrogarsi a fondo sulle radici, sulla logica e sulle prospettive di un sistema economico globalizzata, capace di produrre tanta ricchezza da risolvere potenzialmente ogni problema materiale per l’intera popolazione mondiale; ma, allo stesso tempo, totalmente incapace di determinarne una ridistribuzione giusta ed equa. Cosicché due terzi dell’umanità sono schiacciati dalla trappola della povertà che rende vano ogni tentativo di affrancamento e annichilisce la speranza. Fino al paradosso per cui nel Sud del mondo si muore per carenza di cibo e nel Nord ricco si muore per le malattie legate al suo eccesso. Davanti ad un quadro così cupo come non capire la definizione di scienza triste data all’economia da Carlyle nel 1849? E, forse, faceva bene Wilde a definire gli economisti come coloro che conoscono il prezzo di tutto ma il valore di niente. La scienza triste e il sorriso Come non sorprendersi quindi nel sentire, in un convegno internazionale, un economista di fama congratularsi con i colleghi per la qualità del loro sorriso – non un sorriso da affaristi, ma un sorriso che viene dal cuore ed esprime una felicità piena -. Un altro partecipante, invece, parla di quel sorriso che è un dono e che crea la relazione; un altro ancora accenna al sorriso che ci rende come fiori, sempre gli stessi, ma ogni giorno con un colore diverso. Altro che scienza triste! Verrebbe da dire. Se poi consideriamo che uno viene dalla Tanzania, l’altro dall’Italia e il terzo dall’India, nutrire la speranza che tale quadro a tinte fosche non esaurisca la realtà diventa una possibilità concreta. Tutto questo e molto altro di più è stato detto e fatto al convegno dal titolo Nuovi orizzonti dell’economia di comunione svoltosi dal 10 al 12 settembre scorsi a Castelgandolfo, che ha visto la partecipazione di 650 tra economisti, studiosi, imprenditori provenienti da trenta paesi. I lettori più affezionati di questo giornale sanno bene che cosa sia il progetto di Economia di Comunione (EdC); spesso, infatti, Città nuova ha ospitato nelle sue pagine resoconti di convegni, esperienze di aziende o le vicende dei poli industriali sparsi per il mondo. L’EdC, lo ricordiamo, nasce su ispirazione di Chiara Lubich che nel 1991, durante un viaggio in Brasile, lancia la sfida di creare imprese capaci di generare utili da mettere in comunione con i poveri e per contribuire alla diffusione, anche nell’economia, di una cultura improntata a gratuità e solidarietà. Da allora, questi ultimi 13 anni hanno visto l’adesione di circa 800 imprese in tutto il mondo, l’aiuto concreto ogni anno a più di 10 mila indigenti, la discussione di centinaia di tesi di laurea e dottorato, convegni, presentazioni pubbliche, riconoscimenti ufficiali, tra cui due lauree honoris causa alla stessa Chiara Lubich. Alla crescita dimensionale del progetto e alla sua diffusione in ambito politico ed economico, si è accompagnata una maturazione nella riflessione teorica e culturale, che ha visto numerosi economisti di livello internazionale elaborare e diffondere un nuovo modello economico in cui la categoria della relazione, per troppo tempo dimenticata, riacquista un posto centrale. Nuove prospettive e orizzonti Imprese nuove, teorie nuove, orizzonti che si allargano. È proprio di questi nuovi orizzonti del progetto di EdC che si è discusso durante i tre giorni del convegno. Le imprese di EdC rappresentano una sfida alla concezione dominante dell’economia, perché operano nel mercato, ma non sono totalmente vincolate alla sua logica. Sfruttano la proprietà tipica del sistema mercantile di determinare un utilizzo ottimale delle risorse disponibili, ma decidono di destinare i frutti di tale attività all’aiuto di chi ha di meno. Si superano, in questo modo, i problemi di ridistribuzione attraverso la gratuità e il libero dono. Ma tale dono non va confuso con la filantropia; è un qualcosa di più profondo e radicale. È un dono reciproco, perché anche i poveri danno i loro bisogni così come gli imprenditori fanno coi loro utili. È un dono, quindi, che crea un forte legame, una comunione, che eleva e non avvilisce chi lo riceve. Tanto che, nella stragrande maggioranza dei casi, i poveri che hanno ricevuto aiuti dall’EdC e sono poi riusciti ad affrancarsi dalle difficoltà, diventano donatori. Questo dare va incontro non solo al bisogno di chi è in difficoltà, ma soddisfa anche il bisogno di chi cerca un senso più profondo alla propria attività economica. È una logica che porta alla fraternità, che oggi, grazie all’opera di Chiara Lubich, sta riacquistando una posizione centrale nelle nostre categorie di pensiero e nelle pratiche delle comunità dei Focolari, in politica così come in economia. In questi ultimi anni, l’EdC ha stimolato la ricerca economica ed è venuta in contatto con esperienze diverse ma simili: in India, i progetti per una economia gandhiana; in Olanda e in Canada, l’esperienze dell’economia della condivisione e del sufficiente; nelle Filippine dove si lavora per la creazione di un sistema finanziario accessibile anche ai più poveri attraverso il microcredito. Imprese e poli industriali Delle centinaia di tesi discusse in Italia e all’estero, della raccolta e la distribuzione a livello internazionale dei profitti, delle scuole per imprenditori, che rappresentano oggi alcune delle realtà più consolidate del progetto, si è discusso come per definire lo stato dell’arte dell’EdC. La distribuzione degli utili, come ha sottolineato Luigino Bruni non è che la punta di un iceberg. L’adesione di un’impresa al modello EdC, infatti, ne modifica profondamente il funzionamento, le regole, i rapporti tra lavoratori, delineando in questo modo, afferma Alberto Ferrucci, una azienda di comunione nella quale ogni aspetto, dal lavoro al bilancio societario, dalla destinazione degli utili a quello dei legami commerciali, l’etica aziendale e i vincoli con le istituzioni, i rapporti nell’azienda, la salute dei lavoratori, l’impatto ambientale e sociale, sono tutti improntati alla comunione. Non è raro che anche nella visione tradizionale dell’azienda tutti questi aspetti vengano tenuti presenti, ma il più delle volte questo ha una finalità strumentale in funzione del guadagno. Nelle aziende EdC, continua Ferrucci, tutti gli aspetti della attività aziendale acquistano pari importanza: a servizio anche del risultato economico, ma non solo. In questa visione si comprende il ruolo fondamentale del lavoro. Fare di ogni ora un capolavoro di precisione e armonia – suggerisce Chiara Lubich – sfruttare i propri talenti non solo per il guadagno, ma per trasformare in amore ogni cosa che esce dalle nostre mani. Una dimensione che chiama in causa tutti. Uno degli aspetti più moderni e qualificanti del progetto riguarda i rapporti tra le imprese. Esse spesso infatti si raggruppano a formare i cosiddetti poli industriali. Ne esistono in Brasile, in Argentina, e la creazione di quello italiano, vicino a Firenze, è in una fase avanzata. Questi poli, sorta di distretti industriali della fraternità, sorgono nelle vicinanze delle cittadelle dei Focolari, per sfruttarne al meglio le sinergie culturali e sociali. I poli, inoltre, come sottolinea Filipe Coehlo, economista dello sviluppo portoghese, radunando in un luogo più aziende fanno sì che si veda un modello economico concreto e danno in questo modo visibilità all’intero progetto. Questi, inoltre, costituiscono un punto di riferimento per tutte le aziende EdC di una nazione o di una regione. Perché – dice in proposito Chiara Lubich – gli imprenditori devono essere tutti legati. Si consigliano fra loro nelle difficoltà, si consolano, si aiutano economicamente e anche con le idee. Quale sviluppo e quale povertà? Il Sacro Graal dell’economia moderna è la ricetta per lo sviluppo economico. I governi sono sempre più concentrati su obbiettivi di crescita e su tutto ciò che ad essa porta: consumo, bassa inflazione, liberalizzazione (o protezionismo, a seconda dei casi) e così via. Dopo decenni di rincorsa alla crescita, solo ora iniziamo ad interrogarci sui contenuti di questa crescita e sul modello di sviluppo che essa alimenta. A fronte di una cresciuta ricchezza materiale, i paesi occidentali sperimentano una riduzione della felicità percepita, della coesione sociale e dell’eguaglianza dei cittadini. Che impatto può avere l’EdC su questa situazione, che idea di sviluppo emerge dalla categoria comunione? Cristina Calvo, economista argentina, impegnata da anni in un’opera di ricostruzione del tessuto sociale di quella nazione lacerato dalla recente crisi, è convinta che l’EdC possa costituire la base di un nuovo paradigma di sviluppo partecipato, con uno sguardo messo sulla sfida della interdipendenza e della interculturalità tra le nazioni. Uno sviluppo inclusivo inteso come l’insieme delle condizioni sociali che permettono la realizzazione umana della società e della persona, e dunque un concetto che oltre ad essere quantitativo è pure qualitativo. L’EdC rafforza l’enfasi posta sul ruolo della solidarietà internazionale e propone l’idea di un passo avanti verso il recupero del principio della fraternità, giacché la solidarietà è necessaria ma non sufficiente per un nuovo paradigma di sviluppo. Una cosa è essere solidale con un altro – continua Cristina Calvo – un’altra è essere un suo fratello. La comunione, la condivisione rende degno l’altro, si crea una società in cui tutti sono protagonisti e partecipano alle grandi decisioni. Con lo sguardo aperto all’interdipendenza tra i popoli si può capire come spesso l’accrescimento della nostra ricchezza porti come conseguenza una riduzione delle possibilità di sviluppo di qualcun altro. La lotta alla povertà diventa quindi una questione che ci interpella tutti, tutti in quanto lavoratori, tutti in quanto consumatori. C’è infatti, come sottolinea Bruni, una povertà subita da sradicare. È la miseria ingiusta e disumana , ma c’è anche un’altra povertà, quella liberamente scelta che costituisce la precondizione per sconfiggere la miseria, tutto ciò che ho mi è stato donato, e deve essere perciò ridonato. In questo modo i beni diventano ponti. Ma non si tratta solo di economia in senso stretto. La categoria della comunione, infatti, illumina e rinnova altri aspetti dell’agire umano: l’ecologia, la politica, le relazioni internazionali, l’urbanistica. Le relazioni tra queste discipline, le pratiche che esse informano, nella comune radice della relazione e della comunione contribuiscono alla creazione di una cultura (anche economica) a più dimensioni, in cui la persona non appare scissa nelle sue molteplici sfaccettature, ma integra.

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