Orevwa Chili, addio Cile
La prima volta che incrociai migranti haitiani diretti in Cile fu alcuni anni fa, tornando da un viaggio. Facevo scala a Panama e, in attesa del mio volo, ero seduto a fianco a un gruppo di haitiani. Erano silenziosi, meditabondi. Lo sguardo di chi ancora si chiede cosa stia facendo. Notai preoccupato i loro indumenti leggeri, di cotone, le donne avvolte con fazzoletti e foulard in quantità, quasi tutte con sandali e senza calze, gli uomini con magliette a maniche corte, scarpe da ginnastica.
Avrebbero affrontato in quelle condizioni il rigido inverno cileno, che al mattino – quando saremmo arrivati – fa scendere la temperatura attorno allo zero. Li aiutai a districarsi con gli annunci del volo, perché il creolo da loro parlato, già distante dal francese, lo è ancor più dallo spagnolo.
Erano gli anni in cui il numero dei migranti provenienti da Haiti che arrivavano in Cile era in continua crescita: dalle scarse migliaia del 2010 agli oltre 100 mila nel 2017.
È difficile sapere per quale ragione avessero scelto il Cile come meta. Ma quando esci dal Paese più povero del mondo, sconvolto da terremoti geologici e politici, perché vivi con una manciata di goud al mese (117 goud per 1 euro), non hai modo di analizzare a fondo dove sarà meglio emigrare. Con tutta probabilità, qualsiasi luogo sarà migliore.
Si pensa poco a queste cose quando emigrare non fa parte delle tue opzioni, dunque nemmeno si pensa ad aiutare chi invece decide di farlo. Forse la presenza durante vari anni di un contingente cileno dell’Onu ad Haiti ha contribuito a dare l’immagine di una terra di opportunità.
Ma se per gli stessi cileni questa non è la terra dove scorre latte e miele, meno ancora lo è per gli haitiani. Intanto, per molti locali è stata una assoluta novità convivere gomito a gomito con gente di colore. Poi, la gran parte di chi ha trovato un lavoro si è dovuta accontentare di mestieri poco remunerati: pulizie, lavori domestici, muratori, facchini, operai senza specializzazione, braccianti, ambulanti… Una situazione che la protesta sociale esplosa alla fine del 2019 e la pandemia non hanno migliorato. È difficile dire se è esistito un progetto di integrare questo nuovo gruppo etnico nella vita nazionale. Il sospetto è che le cose sarebbero andate diversamente nel caso dell’arrivo massivo di norvegesi o di svizzeri. Non è razzismo ma aporofobia: il rifiuto dei poveri.
Uno dei problemi è spesso ottenere la residenza, è il primo problema della metà dei 200 mila haitiani presenti nel Paese. Tra i documenti richiesti c’è la fedina penale, ma non è semplice ottenerla a distanza e magari quando arriva è già scaduta. Non è chiara la ragione per esigere questo documento a chi vive qui da 6 o 7 anni, con qualche figlio nato in Cile. Sta di fatto che molti hanno intrapreso un nuovo viaggio questa volta puntando agli Usa. Il governo stima in più di 10 mila gli haitiani che hanno lasciato il Paese nell’ultimo anno, ma il numero potrebbe arrivare a 15 mila tenendo conto di chi è uscito illegalmente.
Infatti, erano haitiani la maggior parte dei 13.600 migranti accampati sotto un ponte a Del Rio, Texas, alla frontiera con il Messico, molti provenienti dal Cile e dal Brasile. Decine di tessere di identità sono state trovate nei campi circostanti, in modo da evitare di essere rispediti nei Paesi di provenienza.
Ma il viaggio dal Cile fino alla frontiera con gli Usa è una roulette russa: con in tasca due o tre mila dollari, si spostano fino alla frontiera col Perú, dove entrano illegalmente. Continueranno a piedi o in autobus fino al confine con la Colombia, dove li aspetta la selva del Darién, quasi 600 mila ettari da attraversare prima di arrivare in Panama. La attraversano esposti ai criminali e ai paramilitari che controllano la zona. Chi cercherà un migrante con qualche soldo in tasca se sparisce nel mezzo del… nulla? Dovranno percorrere così l’America Centrale ed il Messico, prima di cercare di varcare la frontiera con gli Stati Uniti. Devi proprio fuggire da un calvario immenso per affrontare quest’altro calvario col rischio di lasciarci la vita.
La visione delle autorità cilene del fenomeno migratorio appare dettata più dal buon viso a cattivo gioco che dalla comprensione di una realtà con la quale occorre confrontarsi: milioni di persone si spostano cercando migliori opportunità. Molto spesso, gli economisti hanno segnalato nella quantità di popolazione cilena un fattore condizionante l’economia del Paese, che ha un mercato di limitate dimensioni. Il mondo non è un supermercato dove selezioni le migliori popolazioni da accogliere, ma una realtà che costruisci gestendo questi processi in modo da integrare vecchi e nuovi abitanti. Nessun mercato saprà mai farlo da solo, perché in genere il mercato di bene comune non ne sa granché.
La multiculturalità è il futuro, non un accidente.