Ore di attesa per l’ex Ilva
Comunque andrà a finire lo scontro giuridico, civile e penale, tra i rappresentanti dello Stato italiano con la proprietà di Arcelor Mittal, sembra ormai certo che lo stabilimento siderurgico di Taranto, più volte citato come il più grande a livello europeo, si stia avviando verso la chiusura per scelta esplicita della multinazionale franco-indiana. L’amministratore delegato della società italiana del colosso mondiale dell’acciaio, la temutissima manager Lucia Morselli, ha comunicato ai sindacati il progressivo spegnimento degli impianti entro il 15 gennaio 2020. La scelta è irreversibile e non esistono contromisure possibili da parte del governo. Neanche la riproposizione del controverso “scudo penale” che vede schierati in senso contrario il M5S. Con effetti a cascata sulle imprese dell’indotto e prevedibili forti importazioni di acciaio dall’estero.
È stato apprezzato, comunque, da molti il gesto di Giuseppe Conte che ha deciso di recarsi personalmente a Taranto a parlare, in un’assemblea drammatica, con i dipendenti dell’ex acciaieria di Stato che si trovano davanti a un dilemma che neanche il presidente del Consiglio ha confessato di sapere come sciogliere.
Il professore pugliese conosce senz’altro la definizione del giurista Carl Schmitt sulla sovranità che si manifesta in chi è capace di decidere in uno stato d’eccezione, anche andando contro leggi e diritti acquisiti. Il conflitto indotto tra industria, lavoro, ambiente e salute resta, invece, pericolosamente in piedi. Si teme per Taranto il destino di una nuova Bagnoli, altra acciaieria impiantata in un luogo ameno del Sud come promessa mancata di sviluppo e un presente di un sito dismesso senza interventi efficaci di bonifica e riconversione produttiva.
Conte ha chiesto ai suoi ministri di portare idee concrete in vista del tavolo aperto con i rappresentanti dei lavoratori e della cittadinanza, oltre che con quelli della famiglia indiana Mittal, residente a Londra, che detiene il pacchetto di maggioranza del colosso mondiale dell’acciaio con sede nel minuscolo Lussemburgo.
Senza mezzi termini la determinatissima associazione Peacelink sta promuovendo in questi giorni, a Taranto, il film inchiesta “Mittal, il volto nascosto dell’Impero“, girato dal regista francese Jerome Fritel per dimostrare l’aderenza della proprietà della multinazionale siderurgica ai più prevedibili requisiti del capitalismo irresponsabile. Anche il coordinamento europeo dei consigli di fabbrica della siderurgia, riunitosi a Genova, è giunto alla conclusione di promuovere uno sciopero collettivo e condiviso nei diversi Paesi dove ha sede Arcelor Mittal. «La crisi della siderurgia attraversa tutta l’Europa e la necessità di collegare a livello europeo le battaglie dei lavoratori è più che mai evidente – affermano nel loro documento conclusivo –. È una vecchia storia, quando gli affari vanno bene i grandi gruppi fanno i miliardi, ma se il ciclo rallenta lo vogliono far pagare ai lavoratori. Per questo serve un sindacato europeo, una contrattazione europea e uno sciopero europeo».
Alessandro Marescotti, sempre di Peacelink, docente nelle scuole superiori a Taranto, reso noto dalla padronanza dei dati dimostrata in un’assemblea pubblica con Luigi Di Maio, al tempo ministro del Lavoro e dello sviluppo economico, è convinto, non da oggi, della non sostenibilità economica del gigantesco sito siderurgico tarantino che potrebbe raggiungere il pareggio solo con una produzione di almeno 7 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (contro le 4,7 di oggi). Di poco superiore, cioè, al volume di 6,8 milioni di tonnellate annue prodotte nello stabilimento belga della Arcelor Mittal con 5.800 dipendenti (Taranto ne ha 8.277).
In via generale, poi, il gruppo guidato dalla famiglia Mittal sta affrontando la crisi congiunturale del mercato dell’acciaio, dato che nel terzo trimestre 2019 ha registrato una perdita di 539 milioni di dollari.
Quanto alle idee risolutive, è emerso nel dibattito, da parte del centrista Bruno Tabacci, la memoria della ricetta dell’ex commissario dell’ex Ilva Enrico Bondi che nel 2013 sosteneva la trasformazione del ciclo dell’acciaieria dal carbon fossile al gas naturale, con effetti di gran lunga meno impattanti a livello della salute pubblica. Proposta poi accantonata dai successivi governi, fino alla contestata vittoria della gara di assegnazione dell’Ilva da parte di Arcelor Mittal in contrasto con la cordata guidata dagli indiani della famiglia Jindal.
Ora che tutta l’operazione sembra saltata in aria, è singolare registrare la proposta che arriva da Massimo Ferrarese, ex presidente della Provincia di Brindisi, ora presidente di Confindustria Brindisi e già presidente del fondo immobiliare Invimit. In un’intervista rilanciata dal sito del centro studi di estrazione liberale, Fondazione Magna Carta, l’esponente confindustriale, in caso di effettiva rottura definitiva con Arcelor Mittal, non vede altra strada che la nazionalizzazione della ex Ilva, con i lavoratori attivi assunti dallo Stato mentre «quelli in esubero, con la massima garanzia da dipendenti pubblici, potrebbero lavorare alla bonifica del territorio utilizzando anche i fondi sequestrati ai Riva» (ex proprietari dell’Ilva sotto processo per disastro ambientale, ndr). Allo stesso tempo, sempre secondo Ferrarese, «occorre creare una no tax area nella zona di Taranto: 300 ettari di terreno dove gli imprenditori possano investire senza pagare tasse sugli utili, possano godere di misure di decontribuzione e anche di risorse a fondo perduto sulla scia della legge 448 del ‘92». Una soluzione che è quasi identica a quella avanzata precedentemente, nel dossier “goodbye diossina”, da Angelo Bonelli, ex leader del partito dei Verdi e già consigliere comunale di Taranto.
Paradossalmente sembra che occorra arrivare all’extrema ratio, si spera non fuori tempo massimo, per trovare una linea condivisa tra ambientalisti e parte del mondo dell’impresa. E stupisce anche la risposta del rappresentante confindustriale di fronte alla prevedibile domanda sugli ostacoli che tale soluzione incontrerebbe a livello di Unione europea. «A chi in Europa non è d’accordo – precisa Ferrarese – ricordo cosa accade oggi coi regimi fiscali presenti in Lussemburgo, Cipro, Malta, Irlanda, Olanda. Se l’Italia introitasse le tasse che vengono pagate da molte aziende italiane altrove in Europa dove è ammessa una fiscalità di vantaggio, lo Stato italiano avrebbe 8 miliardi in più all’anno. Nessuno in Europa deve insegnarci nulla e salvare un territorio devastato è un dovere per tutta la comunità Europea».