Ontologia trinitaria e politica
Il prof. Raul Buffo, docente all’Istituto Universitario Sofia, è uno dei principali collaboratori del teologo Piero Coda, tra gli autori del Manifesto per una ontologia trinitaria edito da Città Nuova. Gli abbiamo rivolto alcune domande sui temi sollevati da quest’opera.
Prof. Buffo, quale lettura offre del Manifesto per una Ontologia trinitaria di Piero Coda, Massimo Donà ed altri, Città Nuova, sulla policrisi attuale ed in particolare sul mondo della politica?
La crisi è certamente complessa, plurale, poliedrica. Ma – è evidente – essa è anche unitaria nella sua radice. La crisi della politica non è slegata dalla crisi dell’economia, dell’ecologia, della società, dell’educazione o della cultura. D’altronde, ogni crisi è sintomo del fatto che in atto c’è un cambiamento, al quale occorre corrispondervi adattandosi, cercando nuove risorse e punti di riferimento per orientarsi. Ora, la forza, la profondità e le proporzioni della policrisi attuale è dovuta al fatto che oggi, come dice Papa Francesco, più che un’epoca di cambiamenti, stiamo vivendo un cambiamento d’epoca. La differenza è sottile ma cruciale: perché l’avvento di una “nuova” epoca richiede “nuovi” strumenti per orientarsi nella novità. Se si continua a leggere e interpretare una realtà in cambiamento radicale con vecchie categorie, allora si rischia di non fare presa su di essa, di non incidere, di essere ideologici nell’analisi e irrilevanti nelle proposte. Ciò vale per il mondo della politica come per qualsiasi altra realtà. Ecco, dunque, la diagnosi che il “Manifesto” fa della crisi del nostro tempo: alla radice vi è un sostanziale smarrimento del pensiero: non sappiamo più pensare!
Nel concreto, quali considera gli apporti del “Manifesto” per un pensiero in grado di fare fronte a quelle che esso definisce “inedite, improcrastinabili e decisive sfide interpellano la famiglia umana e insidiano la casa comune”, soprattutto rispetto ai paradigmi politici ormai in crisi in tutto il mondo?
Se c’è una proposta di fondo nel Manifesto per fare fronte all’attuale crisi – che è anche crisi generale dei paradigmi, non solo politici – è che occorre, con urgenza, un “nuovo” pensiero, un pensiero all’altezza della “nuova” epoca. Le sfide sono molte e i paradigmi di pensiero di cui oggi disponiamo si sono ormai rivelati incapaci di far fronte ad esse. Il mondo della politica è un esempio eclatante: mancanza di visione, crisi degli spazi di partecipazione, della rappresentatività, della classe politica, del tessuto e del senso civico. Eppure, nel cercare di arginare questa crisi, si continua a ricorrere a paradigmi di pensiero inadatti. Si continua a interpretare il reale in modo parziale e riduttivo, a semplificare la sua costitutiva complessità: ne è testimone la sempre crescente polarizzazione che investe il discorso politico globale, dominato ormai esclusivamente dalla logica del aut-aut.
Nel “Manifesto” si afferma l’urgenza di “ripensare il pensiero”. Come intendere questa operazione?
Anzitutto occorre notare che, in questo suo appello di fondo, il Manifesto si trova in buona compagnia. Autori del calibro di Martin Heidegger o Edgar Morin, a modo loro, hanno profetizzato e interpretato l’attuale crisi, insistendo con diverse sfumature e intensità sull’urgenza, oggi, di “ripensare il pensiero”. Certo, bisogna cogliere l’appello in modo giusto. Perché esso può sembrare un po’ altisonante, un po’ pretenzioso, un po’ troppo generico e astratto; ma può anche apparire come qualcosa di esclusivamente indirizzato agli “intellettuali” del nostro tempo, liberando tutti gli altri dal rispondere a questa chiamata urgente, che è appello alla responsabilità. Il punto, in verità, è che oggi domina e ci domina un tipo di pensiero che è puramente funzionale e strumentale, che riduce tutto a calcolo e interesse, che è valido in quanto ottiene risultati quantitativamente misurabili. Il dramma che stiamo vivendo è che ci siamo illusi di poter semplificare la realtà a misura del pensiero razionalisticamente inteso, senza accorgerci che la realtà è sempre eccedente il pensiero. Il lemma “ontologia trinitaria”, per la verità non sempre di facile e rapida comprensione, racchiude in sé tutto un programma: dire l’essere, ovvero la realtà così com’è, nella sua eccedenza, nella sua variopinta composizione e nelle sue concrete declinazioni, a partire da quella prospettiva relazionale che nomina lo specifico del Dio cristiano come Uno e Trino.
Considera possibile la collaborazione tra il vostro gruppo di teologi e filosofi, animati da una intenzionalità pericoretica aperta ad apporti esterni, con esperti del pensiero complesso in Italia come Ceruti, De Toni, Castellana ed altri?
Senz’altro. A onor del vero, si tratta di una collaborazione che è già in atto, pur se agli inizi, grazie alla prospettica intuizione degli amici del Centro di cultura G. Lazzati di Taranto, generosi e instancabili promotori di questo dialogo. I punti di contatto sono molti, ma soprattutto, c’è una piena convergenza sull’essenziale. Non è casuale che il “ripensare il pensiero” che auspica il Manifesto in apertura sia una esplicita citazione di Edgar Morin, uno dei padri del pensiero complesso. Perché la prospettiva trinitaria, nel suo essere articolatrice di unità nella molteplicità, è complementare a quella della complessità. Entrambe le prospettive chiamano in causa un pensiero complesso, trinitario se si vuole, in grado di interpretare la realtà nella sua essenza costitutiva, di coglierla a partire dal suo darsi e non da precomprensioni semplificatrici che le vengono imposte dall’esterno, il che è possibile solo nell’oltrepassamento dei limiti della stessa ragione analitica o dialettica. Dunque, bisogna non farsi distrarre dalla valenza “confessionale” che il riferimento alla Trinità può avere. Perché la Trinità è, nel fondo – lo dico anche provocatoriamente – essenzialmente laica. Nel senso che essa è “luogo di luoghi”: intenzionalmente aperta alla provocazione di punti di vista e prospettive altre, siano essi confessionalmente diversi o non confessionali affatto. Dunque, se da un lato dice il più proprio del proprio cristiano, la Trinità – libera convergenza o conversione della diversità, cioè dell’unico Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo –, precisamente per questo, è chiamata ad avere la massima estensione e la più universale apertura.
Quanto può contribuire il pensiero trinitario, il modello del poliedro di papa Francesco, di Cosmopoli di Berhnard Lonergan, il Manifesto per una Teologia del Mediterraneo, a fondare un nuovo paradigma politico in grado di rispondere alla crisi della democrazia rappresentativa?
Penso che, come ogni modello o paradigma, l’efficacia di queste esperienze di pensiero menzionate vada misurata dall’effettiva capacità di incidere sulla realtà e di ispirare la prassi umana. Per cui vanno misurate anche dalla loro concreta abilità di rinnovare e vivificare le nostre democrazie rappresentative in quanto patrimonio comune della nostra cultura politica. D’altronde va notato che tutte queste esperienze di pensiero si fondano su una comprensione dell’esperienza cristiana come esperienza non meramente apologetica, ma intenzionalmente aperta, laica, chiamata a trasformare performativamente il nostro mondo vitale: cos’è il Manifesto per una Teologia del Mediterraneo se non il tentativo di cercare di elaborare un pensiero teologicamente ispirato che abbia come “luogo” di pensabilità e praticabilità precisamente il Mediterraneo come “terra” di frontiera, di morte e di vita, di separazione, ma soprattutto di incontro tra persone, civiltà, culture, religioni? Dunque, la crisi attuale è anche, e forse prima di tutto, crisi della cultura d’ispirazione cristiana, che incide direttamente sulla qualità e salute delle nostre democrazie, alla loro capacità di organizzare la convivenza e coesione sociale, di garantire la partecipazione e di dare voce a tutti. Faccio un esempio che ho ascoltato da Piero Coda. Si pensi al tema dell’alterità, del rispetto dell’altro, così essenziale per la salute della democrazia: oggi è stato ridotto a mera “tolleranza”, a rispetto in senso puramente passivo. Eppure, che Dio sia Trinità dice in modo semplice ed evidente questa straordinaria verità: è bello, è buono che l’altro sia. L’alterità in Dio, che il Figlio sia altro da Padre, non significa un venire meno della loro unità e divinità. Anzi, la qualifica come tale. Lo stesso vale per il mondo, l’altro da Dio: il libro della Genesi narra che Dio creando dice: “sia la luce”… “facciamo l’uomo” e “vide che era cosa buona” … “vide che era cosa molto buona”. È qui espressa una logica dell’alterità che è trinitaria. La diversità è il fiore dell’unità; l’alterità è via inevitabile per la realizzazione del sé, per la fioritura della persona. L’inerzia e la povertà di un pensiero non più collegato alla sua radice, non più alimentato da una linfa vitale, ci porta invece a negare l’altro, a ridurlo a me: l’altro, lo straniero, l’ospite… e anche il nemico. Le conseguenze sono alla vista.
Da che cosa dipende che la profezia di un nuovo pensiero di cui parla il “Manifesto” quale “kairòs” del nostro tempo possa effettivamente avverarsi, anche in politica?
Mi sembra che l’esempio di prima mostri bene il modo in cui questo pensiero di ispirazione cristiana può e deve fecondare, in modo “laico”, anche il mondo della politica. Il kairòs, tuttavia, non va letto con le lenti di un cristianesimo chiuso, culturalmente dominante: dal cuore della crisi del nostro tempo – ricorda il Manifesto – sono fioriti itinerari di pensiero performativi della realtà, di diversa origine e ispirazione, ma senz’altro convergenti: la fenomenologia, l’esistenzialismo, il personalismo, il pensiero dialogico, l’etica dell’alterità, l’ermeneutica della verità, la svolta linguistica, l’antropologia della corporeità e della sessualità, la filosofia della scienza e della tecnica, l’ecologia, la cultura dell’incontro tra le religioni e le convinzioni… La sfida, insomma, è leggere tutti questi itinerari come contributi al effettivo realizzarsi della profezia di un nuovo pensiero adatto alla nuova epoca che ci tocca vivere. Ma perché la profezia possa avverarsi, occorre creare spazi di dialogo reciproco tra coloro che riflettono in modo specifico sul significato del pensare – cristianamente e insieme laicamente ispirato –, cioè filosofi e teologi, coloro che di fatto mediano quelle risorse del pensiero immaginando modelli teorici per un’applicazione concreta – politologi, sociologi, economisti, giuristi, ecc. – e, infine, coloro che di fatto ne operano la mediazione pratica di quei modelli nell’effettivo impegno nella gestione e cura della cosa comune, secondo la propria misura e responsabilità: politici, operatori sociali, educatori, imprenditori, cittadini. Nella possibilità di una circolazione delle idee ed esperienze a tutto tondo, inter e transdisciplinare, nel rispetto dell’altro e nella distinzione di competenze e ruoli, si gioca forse, oggi, la possibilità di una rispondere come umanità all’attuale policrisi, anche in politica.