Omofobia: uno sguardo oltre la legge

La discussione in Parlamento porta a riflettere sulle basi del diritto: si fonda su dati naturali e biologici o sulla percezione che ogni persona ha di sé? L’oggettività potrebbe ancora essere garantita anche in altre sedi di giudizio. Il parere del giurista
Uomini

Adriana Cosseddu è docente di diritto penale all’università di Sassari e si occupa di diritto al centro di studi internazionale del Movimento dei focolari. Le abbiamo chiesto una valutazione sulla legge Ddl contro l’omofobia in discussione alla commissione giustizia della Camera.

È imminente in Parlamento la discussione del testo base della legge “per il contrasto all’omofobia e alla transfobia”, dopo l’ approvazione il 9 luglio scorso. da parte della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. La proposta non è nuova, avendo già trovato nella formulazione precedente riserve di ordine costituzionale.

La definizione di genere e di naturale Comprendere nella sua portata l’attuale testo normativo esige qualche breve riflessione anzitutto di ordine terminologico. É l’art. 1 della stessa proposta che introduce, ai fini della medesima legge, due definizioni. La prima, «orientamento sessuale» inteso come «l’attrazione nei confronti di una persona dello stesso sesso, di sesso opposto, di entrambi i sessi». La seconda, «identità di genere», ovvero, «la percezione che una persona ha di sé come appartenente al genere femminile o maschile, anche se opposto al proprio sesso biologico».

Il linguaggio non è secondario, non lo è per le convenzioni sociali e le istituzioni che fondano una società, ma non lo è neanche per il diritto che ne detta le regole per la convivenza. Fino ad oggi, il genere maschile e femminile ha trovato attenzione e riconoscimento a livello normativo, in quanto dato inscritto nei corpi sessuati degli uomini, ad indicarne complessità e ricchezza di fattori che fin dalla nascita imprimono identità, forme di vita e ruoli sociali. Su questa base la stessa Costituzione all’art. 2 riconosce i «diritti inviolabili» dell’uomo come tale e all’art. 3 sul principio di eguaglianza introduce la «pari dignità sociale». Sulla base di analoghe considerazioni, i Costituenti hanno introdotto il riconoscimento della famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio», a indicare col termine naturale il «limite posto alla revisione» costituzionale, che «non può alterare la struttura fondamentale dell’istituto familiare» (così Mortati), alla base della società.

L’oggettività del diritto La proposta di legge accoglie invece, secondo una recente elaborazione concettuale, l’espressione genere come «discorso culturale», sulla base del quale accordare al soggetto un’ identità anche opposta al proprio «sesso biologico». Quest’ultimo, dunque, cesserebbe di valere come dato bio-fisico per diventare solo esternamente percepibile, ma in realtà “contrario” alla «percezione che una persona ha di sé».

Il diritto così non troverebbe più un dato oggettivo nella pluralità maschile/femminile, su cui tante conquiste in termini di riconoscimento e tutela giuridica sono state ottenute negli Stati nazionali e a livello internazionale. Laddove ancora lunga è la strada per accordare effettività ai diritti umani fondamentali e al rispetto della donna, unitamente alla valorizzazione del suo insostituibile ruolo, si intraprenderebbe una nuova strada, di cui è difficile intuire la meta ultima.

Con il concetto di genere, oggetto della proposta d’imminente esame, si intende infatti chiedere e introdurre una tutela giuridica per e sulla base di una percezione soggettiva di sé, misurata sull’attrazione, indifferentemente, verso l’uno o l’altro o entrambi i sessi. Un dato interno al soggetto, dunque, difficilmente verificabile nella sua oggettività, anche in sede di giudizio, laddove una responsabilità, soprattutto per un fatto di reato, richiede un accertamento fondato su elementi certi.

Discriminazione razziale o sessuale? D’altra parte, l’obiettivo, espressamente indicato nelle disposizioni normative, è proprio quello di estendere l’applicazione della cosiddetta legge Reale-Mancino in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa alle forme di discriminazione motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere.

Ma che cosa comporta il richiamo ai testi normativi citati nella proposta?

Anzitutto, in forza dell’art. 3 della Legge n. 654 del 1975 si dispone la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi per gli atti di discriminazione o l’incitamento agli stessi, motivati dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. Ma si introducono anche divieti e strumenti di prevenzione e repressione in riferimento a ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione.

Come individuare i comportamenti punibili e le espressioni che potranno costituire incitamento all’omofobia? Difficile stabilirlo entro i limiti della libertà, bene di tutti.

Rifarsi alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (resa esecutiva dalla legge del 1975) significa ritornare alle concezioni di «superiorità o [..] odio razziale», e trasferirle, con il loro apparato sanzionatorio, in materia di orientamento sessuale e identità di genere.

Ogni forma di discriminazione diventa certo un passo indietro nella civiltà e offende la dignità della persona, ma è altrettanto vero che introdurre per l’omofobia norme e sanzioni che richiamino idee basate sull’odio può generare un duplice rischio: dare spazio a un “diritto penale del nemico” da contrastare, e configurare nuove ipotesi di “reati d’opinione” per convinzioni diverse che diventano perseguibili penalmente.

La nostra Costituzione e le tutele Si può forse guardare alla Costituzione: l’art. 21 garantisce per tutti la libertà di manifestazione del pensiero, che trova da sempre il suo limite in ogni forma di offesa, fisica o verbale, a chiunque rivolta, in quanto persona. Offese già oggi sanzionate.

E ancora l’art. 3 che sancisce l’eguaglianza di tutti davanti alla legge in una pari dignità sociale, a significare che non possono esserci differenze rispetto al valore proprio di ogni persona umana in quanto tale. Introdurle per legge potrebbe mortificare il senso della “diversità” come ricchezza di cui ciascuno è portatore, e al contempo aprire la strada a un’eguaglianza che non può mutare in omologazione, pena il convertirsi della differenza in in-differenza

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