Omaggio ai Grandi / Riccardo Muti a Firenze
Torna sempre volentieri, ed è gioioso e disteso, Muti nella sua Firenze. E poi affronta un compositore amato come Cherubini – di cui è un autentico riscopritore – allora la direzione si fa sciolta, il canto sgorga preciso, fluente, le compagini orchestrali e corali si calano magistralmente in una musica certo severa e solenne come preghiera universale di un uomo di fede, ma pure ricchissima di sfumature che contraddicono l’immagine di un Cherubini aulicamente serio. Fra le tante, pensiamo al Crucifixus del Credo reso come una marcia funebre di tristezza sostenuta, alla modernità sconcertante dell’Incarnatus, al Kyrie dolorante , mai sottomesso, pieno di dignità; alla luminosità del Benedictus, ove le voci dei quattro solisti principali si alternano come canto su canto a colori chiari. Insieme a tali squisitezze, Cherubini vibra in pagine polifoniche di grandiosità elevata, di toni squillanti o trionfalistici, che gettano una spia su quest’uomo quadrato, ma in fondo malinconico e solitario. Muti esalta la policromia del brano con la consueta passione, seguito da un’orchestra duttile, da cui emerge, nuova, la chiarità di archi e legni. Affiatato il sestetto dei solisti, fra cui giova citare la voce molto bella del basso Ildar Abdrazakov, la melodiosità del tenore Herbert Lippert e il timbro sorgivo, libero del mezzosoprano Marianna Pizzolato. OMAGGIO AI GRANDI Roma. Accademia Nazionale Santa Cecilia. Una carrellata di stelle della classica al Parco della Musica. Dopo il futuro direttore Antonio Pappano che ha offerto il I° atto della Valkiria wagneriana con foga trascinante, Andràs Schiff ha dato un’ennesima lezione di stile, umano e interpretativo. Il terzo concerto dell’Integrale delle Sonate per piano di Beethoven (nn.19,20,9,10,11) è stato un miracolo di misura, eleganza, bellezza di tocco delicatissimo e di fraseggio cantabile nei lavori di un autore ancora non tragico, ma libero e ricco di intuizioni. Schiff ha il dono di non perdere una nota, di far esistere con pienezza ciascuna, così che il discorso suona vitale, armonioso, profondo. Nulla in lui è inutile, ma tutto, una pausa, un legato acquista valore: è la musica. E lui, effettivamente, un grande, senza alcuna ostentazione vanitosa. A 78 anni, agilissimo sul podio, viscerale, e cordiale con l’orchestra che l’adora, Mstislav Rostropovic lancia una violinista giapponese diciottenne, Mayu Kishima, nello spericolato Concerto n. 1 per violino e orchestra di Paganini. La ragazza è una virtuosa mozzafiato, il violino parla e si agita sotto le dita e fa innamorare di Paganini, autore oggi un po’ trascurato, mentre è infuocato non solo nel virtuosismo pazzesco ma nel calore sentimentale. Poi, il direttore offre all’orchestra la possibilità di sfoggiare in ogni sezione la sua bravura nella suite Shéhérazade di Rimskij-Korsakov, che è un fuoco d’artificio di colori, sonorità sgargianti, assoli voluttuosi di violino: un’orgia orientale di cromatismi e di ritmi, ma sostenuta da un’architettura ferrea. Rostropovic incalza tutti, liberissimo nella gestualità fantasiosa ma precisa, ed è entusiasmo.