Omaggio a Elena Bono
Ed eccomi bel bello, si fa per dire, a navigare in un Intercity sotto maltempo (Allarme 2) verso quel di Genova, ma ne vale la pena, vado a pronunciare, nel palazzo della Provincia, un Omaggio a Elena Bono che mi sta a cuore, perché considero questa scrittrice la maggiore italiana vivente. La critica più conclamata, legata all’establishment critico-editorial-premiale, non se ne accorge (fra i noti va controcorrente con la sua onestà intellettuale solo Elio Gioanola, che infatti è lì), ed Elena Bono pubblica con un piccolo coraggioso editore locale (Le Mani, di Francangelo Scapolla). Ho deciso di parlare fuori dai denti e lo faccio. In apertura accenno al declino morale e civile degli italiani (citando a rovescio Gioberti) per incretinimento televisivo con ricadute morali e inevitabili impoverimenti culturali, dunque anche letterari. Si vendono a centinaia di migliaia di copie dimenticabilissimi libri superpremiati fabbricati dall’industria culturale, per un pubblico sprovveduto che, direbbe impietosamente Pasolini, abbraccia le più infami abitudini/ di vittima predestinata e consenziente. Essere liberi oggi, anche in letteratura, significa assumersi il peso desolante del conformismo ma non la complicità e l’omertà con esso. Il compito tremendo e primario della letteratura – ecco l’opera di Elena Bono – è quello di far riemergere quella sempre incompiuta ma sempre risorgente, dall’inizio dell’era cristiana, cultura della persona, che non è l’individuo né la massa, ma l’essere-in-rapporto; quell’essere-in-rapporto che scopre, vivendoli, il valore e la giustificazione dell’esistenza in qualunque temperie culturale e in ogni epoca, tra i manufatti neolitici come in mezzo ai gingilli elettronici, con la medesima imparzialità ed esigenza di assoluto bene. La persona infatti non potrà mai accontentarsi di essere chiuso individuo né dispersa massa: chiediamolo a Dostoevskij, a Kafka, a T.S. Eliot, ai veramente grandi. Individuo e massa (due facce della stessissima medaglia) sono invece funzionali al mercato, anche a quello culturale. La letteratura della persona non annovera molti autori e lettori nell’Italia di oggi, com’è logico, scomparsi quelli che la coltivavano: rapsodicamente e pur da narciso, Pasolini, sempre Silone, disperatamente Testori. Perché la persona in letteratura chiede il sacrificio dell’io, Come Elena Bono dice in compagnia di Dostoevskij, Eliot, Ungaretti, Gadda, chiede il realismo, che è la rinuncia ad ogni gratificante, ideologico naturalismo delle insuperabili individualità e situazioni, compresa quella dell’autore; chiede il superiore realismo di cui parlava, e che da genio realizzava Dostoevskij, il coraggio del buio e della luce, non la carezzevole penombra delle chiacchiere, che fa scambiare best- seller artificiali e dimenticabilissimi per capolavori. E invece già dal suo racconto d’esordio Morte di Adamo Elena Bono dichiarava in esso la sua poetica eticoestetica, il ritorno, cioè, non predatore ma riconoscente all’albero del bene e del male, e dunque alla visione interiore che aveva già annunciato in un verso del 1943: Così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare. Chiudere gli occhi e guardare è il sigillo di ogni vero realismo, che nel qui-ora vede e vuole il là-sempre; alla fine della sua vita Dostoevskij infatti scrisse nel suo diario intimo: Ebbi a cuore l’eterno . Con ciò Elena Bono già dava il benservito a ogni realismo e neorealismo non fondati sull’evidenza invisibile dell’unicità morale dalla persona nella sua libertà/responsabilità: Una sola persona può portare avanti la storia.(…) ecco la nostra incidenza: incommensurabile, infinita (intervista su La riviera ligure, maggio-settembre 2000). Per lei la libertà/responsabilità dell’unica persona umana non è un teorema ma si realizza, o fallisce, sempre e solo nell’emergenza storica più fattuale, sia esteriore che interiore. Perciò, oltre a scrivere in classica compostezza alti versi sui valori e i fatti più autentici della Resistenza, ha lungamente elaborato, e pubblicato con apparente anacronismo in epoca di piena deriva consumistica e di oblio storico, quella grande impresa narrativa che è la trilogia Uomo e superuomo, giunta, dopo Come un fiume, come un sogno e Una valigia di cuoio nero, alla sua penultima tappa, cioè al primo tomo dell’ultimo volume con Fanuel Nuti, di recentissima pubblicazione (v. Città nuova n. 15/16). Questa grande articolazione narrativa (900 pagine finora edite) avrebbe dovuto attirare, per l’impegno pluridecennale e la vastità dell’impianto storico e morale, l’attenzione dei più grandi editori, che invece continuano a pubblicare cose molto inferiori; non cessiamo però di sperare in una resipiscenza. Mentre Salvatore Ciulla, regista e direttore artistico della Fondazione istituto dramma popolare di San Miniato leggeva splendidamente le pagine che avevo scelto per far parlare, meglio di me, le opere, pensavo che l’arte di Elena Bono, davvero profondamente cristiana, non concede e non nega nulla; appare, se la si considera da opposte unilateralità, (naturalismo, decadentismo) spietata, o, al contrario, troppo oltrepassante; mentre ha invece, del realismo cristiano, il senso inderogabile dell’attenzione alla salvezza o alla perdizione di ogni cosa, tempo, luogo; e per sempre: poiché racconta il ritorno, il reditus ad Deum, come dicevano i medievali, nel ritorno all’uomo, come dovremmo dire noi moderni. Infine sono stato ben contento di lasciare la parola alla grande scrittrice, che segnando il punto più alto dell’incontro ci ha raccontato la nascita della sua vocazione letteraria. Un giorno, mentre faceva tutt’altro, si era sentita dettare in mente una frase, e quindi tutto il racconto Morte di Adamo. Era andata poi da suo padre, grande studioso, ma preoccupato degli esami universitari dei figli, e gli aveva detto non: papà, guarda cosa ho scritto, ma: Papà, guarda cosa mi è capitato. Lui aveva letto, o ascoltato (mi scusi Elena Bono la défaillance di memoria), e poi aveva riconosciuto insieme la necessità di quella vocazione e la sua illimitata croce, dicendo semplicemente: Povera figlia mia. In quel momento ho percepito, ben al di là delle mie parole, la misura reale del destino letterario di Elena Bono, in mezzo a tanti incensati, inutili scrittori.