Oltre la ferita
Senza il viaggio, la vita del giornalista perderebbe senso.
E pure fascino. È solo partendo che si può sperare di scovare una notizia, di imbattersi in una buona storia da raccontare. D’altronde per chi deve informare, curiosità e voglia di conoscere sono attrezzi del mestiere. E nulla è capace di soddisfarle, quanto la valigia pronta e la voglia di andare di persona nei luoghi dove i fatti accadono. Partenze che però nell’ambiente sono più spesso vissute come scelte solitarie, opzioni per “single” più che per gruppi organizzati. Solo in qualche caso la trasferta prevede la presenza di compagni di cammino, tanto più che poi in calce all’articolo di giornale o in coda al servizio per il tg, a comparire sarà soltanto un nome: quello del viaggiatore, responsabile unico di quanto guarda e registra, dice e scrive. Spesso geloso del suo stile, del suo lavoro, del materiale raccolto. Per questo mi ha incuriosito e spinto a vedere “l’effetto che fa”, la proposta degli amici di NetOne e Città Nuova, impegnati da qualche tempo a sperimentare una nuova modalità di concepire la ricerca di informazioni e storie in prima linea. “Giornalismo dialogico” lo chiamano: un’esperienza di condivisione in divenire, un originale co-working, un inusuale open space sul campo, che parte dal presupposto che mettendo in comune esperienze, punti di vista e domande, ascoltando tutte le istanze e le voci del territorio, si possano (forse) rendere giornalisticamente più efficaci i reportage e (di certo) umanamente più ricche le persone che, cooperando, vi prendono parte. Soprattutto se ad essere approfondite debbano essere tematiche che segnano e dilaniano la nostra epoca, come le migrazioni. Un terreno su cui è facile perdere di vista la realtà, dividendosi sui principi ideologici, inseguendo facili ricette populiste o andando dietro a pregiudizi difficili da superare.
Il nucleo originale di inviati (molto) speciali a cui mi sono aggregato, aveva già provato a far camminare quest’idea, attraversando insieme, nei mesi scorsi, alcuni luoghi simbolo della via crucis dei migranti del Duemila: la frontiera dei nuovi muri ad est, da Budapest a Varsavia; la porta d’ingresso dell’Europa a sud, da Atene a Pozzallo. Un laboratorio che però doveva prima o poi tornare alla casella iniziale, confrontandosi con il dramma da cui tutto ha avuto inizio: la guerra in Siria, scacchiere su cui l’umanità e le diplomazie continuano da anni a dare il peggio di sé, giocando sulla pelle di un popolo umiliato, martoriato, decimato e costretto alla fuga.
Eccoci dunque in gruppo in Libano, primo confine attraversato da un milione e mezzo di persone che stazionano nel Paese dei cedri, che di abitanti ne fa 4 milioni. Avete letto bene: è come se da noi in Italia fossero accampati 15 milioni di profughi e non solo i 150 mila sbarcati sulle nostre coste l’anno scorso. Cento volte di più. E non basta. Quella gente in fuga da Aleppo varca la frontiera entrando in un Paese che non ha dimenticato (ne può farlo) le ferite di un’altra guerra recente. Quella che costrinse invece i libanesi all’esilio, a causa dell’occupazione militare proprio dei siriani. In quella che veniva chiamata la “Svizzera del Medio Oriente” non c’è un solo cittadino che non ricordi il giorno in cui vide distruggere la propria casa e morire un amico o un parente. O ancora la notte in cui, a rischio di finire vittima delle mitragliate dell’artiglieria di Damasco, si imbarcò nel silenzio e nel buio sulle navi che portavano a Cipro, porto sicuro da cui scappare, in volo verso l’Europa, vista l’impossibilità per i cristiani di utilizzare lo scalo di Beirut, presidiato dalle milizie musulmane.
Ebbene, oggi alla porta dei libanesi bussa proprio quel popolo, che tanti lutti, fughe e distruzioni hanno causato a coloro che oggi, malgrado tutto, si impegnano ad accoglierli. Una solidarietà concreta portata avanti da famiglie (anche dei Focolari) che ci raccontano i sacrifici per affittare appartamenti da mettere a disposizione di chi fugge dalla Siria, assicurando loro assistenza e cure. Uno sforzo sostenuto anche da tanti giovani volontari, che a Nord del Libano vivono nei campi profughi, «per dir loro che non sono soli al mondo, abbandonati». Gente come il torinese Alessandro Ciquera di Operazione Colomba, che ci spiega perché abbia scelto di lasciar tutto per finire su uno dei confini più pericolosi al mondo.
«I miei nonni hanno vissuto la Seconda guerra mondiale, me l’hanno raccontata come la più grande atrocità che un uomo possa fare a un altro uomo. E io sono venuto fin qui perché mi sarebbe piaciuto che i miei nonni avessero trovato persone che in quegli anni li avessero accolti, come proviamo a fare noi con i siriani». Già questo basterebbe a spiegare perché proprio il Libano – in cui convivono pacificamente 19 comunità – fosse il luogo giusto nel quale andare in gruppo, per provare a cogliere la complessità e l’umanità di un fenomeno, che non può essere compreso se non lasciando a casa le proprie ragioni e mettendosi in viaggio per ascoltare quelle degli altri. Storie come quelle dei profughi siriani di Dekouaneh, accampati in uno spiazzo tra palazzi fatiscenti nel cuore della capitale, una terra di nessuno diventata casa e bottega per una trentina di famiglie. Di qua producono mattoni forati pagati una miseria, di là le baracche tirate su con il frutto del loro lavoro. Ambienti legati da quella polvere che gli uomini producono, le donne spazzano e i bambini respirano. Ed è proprio tra le catapecchie di questo campo per rifugiati che mostra le sue potenzialità, la proposta in fase embrionale di un approccio condiviso. Nella delegazione ci sono infatti giornalisti europei e libanesi, ma anche studiosi di scienze sociali latinoamericani e operatori sociali italiani.
Percorsi e provenienze diverse che nel dialogo con i profughi si intrecciano. Chi conosce l’arabo traduce, chi ha maggiori conoscenze del mondo islamico le condivide, chi ha avuto esperienze dirette nell’area oggetto del conflitto, non le tiene per sé ma le impasta con quelle degli altri. Così facendo si intravvede in quel contesto un possibile prototipo di giornalista che, accanto al dovere di cercare e dare informazioni verificate, porta assieme ad altri la responsabilità di sentirsi operatore di pace. Lo riassume bene Roland Poupon, francese, da 46 anni in Medio Oriente, congedandoci: «Voi giornalisti siete gli unici a poter esercitare quella ricerca di verità che i popoli arabi agognano».
NetOne e Città Nuova sulle migrazioni
Il progetto “Giornalismo e migrazioni” promosso dalla rete di comunicatori NetOne e dalle riviste europee di Città Nuova si sta svolgendo in tappe che toccano diversi luoghi-simbolo
dell’attuale emergenza: Budapest, Atene, Varsavia, Pozzallo (Rg) e Beirut, con puntate pure nelle Filippine e in Costa d’Avorio.
Prossimi appuntamenti in Colombia e a Bruxelles.
Si tratta di una ricerca giornalistica e interdisciplinare, che dà la possibilità ai professionisti che vi partecipano di realizzare reportage e servizi per i media per cui lavorano, continuando nel contempo una seria riflessione sul “giornalismo dialogico”. (www.net-one.org)