Oltre i confini della patria
Il Movimento dei focolari nasce nel solco della seconda grande frattura della politica internazionale del XX secolo. Come la prima, anche la seconda guerra mondiale farà sentire a lungo i suoi effetti, attraverso il grande gelo della guerra fredda, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. In uno scenario di distruzione e disgregazione, il carisma di Chiara Lubich ripeteva sin dalle origini, ed a livello sociale più che istituzionale, quella parola che, sul piano politico, la Società delle Nazioni non era riuscita a tradurre in pratica, e che l’Onu, nonostante la buona volontà di tanti, è ancora lungi dal realizzare: l’unità dei popoli, nata dal contributo di ciascuno di essi, unico ed irripetibile. Quando “rivivo”, per così dire, nelle parole di Chiara Lubich la “genesi” del movimento, non posso fare a meno di pensare che quelle ragazze in una città bombardata del nord Italia stavano con la loro vita ricostruendo un “paradigma” di grande rilevanza, valido anche per la comunità internazionale. Dopo l’ideale medievale dell’impero, dopo le illusorie soluzioni del “concerto delle potenze” e dell’equilibrio dei poteri, entrambe fallimentari, il movimento portava l’ispirazione di un nuovo universalismo, privo però di egemonie, e fondato sull’apporto di tutte le culture ed esperienze, anche politiche, dell’umanità. Oggi tutto questo mi pare di grande attualità, a partire dall’esperienza delle nostre società, sempre più multietniche, per ampliare la prospettiva all’Unione europea (il cui motto è oggi proprio “unità nella diversità”) e giungere sino alla globalizzazione. L’azione sociale avviata a Trento dalla prima comunità aveva come dimensione non i confini della città ma coincideva, nell’apertura dell’anima, con tutto il mondo. Mentre la regola tradizionalmente in vigore in politica estera è quella della reciprocità (nel senso ristretto che si concede all’altro esattamente quanto si ottiene e nulla di più), appare con il movimento un nuovo modo di concepire le relazioni internazionali: l’invito ad “amare la patria altrui come la propria “, che è una coerente applicazione del reciproco amore ai rapporti tra gli stati. Qui siamo ben oltre il tema della pace o della guerra giusta (per non parlare di quella “preventiva”): siamo al punto non solo dell’i- nutilità della guerra (come Igino Giordani, sosteneva con dovizia di argomentazioni), ma alla sua impossibilità logica e fenomenologica. La “mappa concettuale” del mondo, secondo Chiara Lubich, è quella che mira a valorizzare la “vocazione” di ogni continente, e cioè a porre in luce lo specifico ed insostituibile contributo che ognuno può dare alla ricomposizione della famiglia umana universale. Questo impegno ha sempre assunto anche una dimensione concreta. Direi che Chiara Lubich da un lato ha invitato i membri del movimento a “globalizzarsi” ben prima della globalizzazione (si parlava di “uominimondo”, cioè capaci di spalancare il cuore sull’umanità intera), lanciando iniziative di fraternità vissuta ad esempio in Camerun, con la costruzione a tappe della cittadella nella foresta di Fontem. Sul piano politico, il messaggio del movimento è risuonato al tempo stesso familiare e fortemente innovativo negli ambienti del Parlamento europeo, del Consiglio d’Europa, dell’Unesco, delle Nazioni unite, fino alla “Giornata mondiale dell’interdipendenza” celebrata per la prima volta quest’anno, il 12 settembre, a Filadelfia. Allo tempo stesso, questo slancio, questa tensione a farsi partecipi dei disagi e degli squilibri dell’umanità ha avuto anche una dimensione locale, se è vero che la Lubich non si è mai stancata di spronare i membri del mo- vimento a rimboccarsi le maniche per sopperire ai mille bisogni materiali ed immateriali delle comunità locali. La prossimità può avere infatti due diverse “scale”: una “vicina” e una più ampia. È il tema, ripreso oggi come una riflessione essenziale della politica internazionale, tra globus e locus, tra le “piccole patrie” e la “terra-patria”. Mi pare che il movimento offra una prima risposta, una chiave di interpretazione che è soprattutto una grande sfida: quella dell’analogia “trinitaria” per la politica internazionale e la comunità mondiale.