Olivetti. Ritorno al futuro

Non è solo una bella storia del passato. Le scelte dell'industriale italiano permettono di affrontare alcuni dei nodi ancora irrisolti della politica economica italiana, come ad esempio la partecipazione dei lavoratori nell’impresa
Adriano Olivetti wikipedia

La Rai manda in prima serata lo sceneggiato su Adriano Olivetti mentre neanche il siparietto delle cronache partitiche riesce a nascondere la realtà del 2013 con il carico di senza lavoro, cassintegrati, esodati e precari. Come ha detto il saggista Goffredo Fofi, «il volto del Paese, non solo nell’industria, ha subito negli ultimi cinquanta anni gli effetti della vittoria del modello Agnelli, sabaudo e gerarchico, su quello di Olivetti, personalista e comunitario».

Per approfondire gli spunti che il racconto televisivo può offrire al grande pubblico, le Edizioni di Comunità, fedele espressione del pensiero olivettiano, hanno ripubblicato la biografia scritta da Valerio Occhetto. Il testo non solo permette di ricostruire il percorso di una persona geniale, ma riesce a porre in evidenza e andare alla genesi di alcuni nodi irrisolti dell’economia e della società italiane. Ad esempio la questione della partecipazione dei lavoratori nell’impresa, qualcosa di molto differente dal paternalismo.

Già nel 1945, Adriano Olivetti chiese all’incredulo delegato sindacale Umberto Rossi di trovare il modo per socializzare la fabbrica. Proposta prontamente rifiutata per la contrarietà al principio del conflitto tra capitale e lavoro, coessenziale al credo del militante comunista. Questi non poteva che rimanere fedele alla mitologia del Soviet, la breve esperienza, avvenuta ai primordi della rivoluzione russa. «Un solo padrone è già sufficiente», è stata per anni la dura risposta di buona parte del sindacato alle timide riforme che prevedevano la distribuzione delle azioni ai dipendenti.

Il senso della partecipazione
La proposta di Olivetti non era, tuttavia, un modo per rendere “complici”, inoffensivi e decorativi i dipendenti. Tutt’altro. Il suo modello di riferimento era quello delle “industrie sociali autonome” dove la gestione è condivisa tra lavoratori, comunità (territorio) e università. Come l’esperienza già avviata, in Germania, dalla Fondazione Zeiss, quella delle lenti di precisione, di Jena.

Di fronte al modello che si è imposto nel governo reale delle imprese, la radicale alternativa prospettata da Olivetti rimane, tuttora, un costante termine di paragone per valutare il dibattito tornato attuale sulla partecipazione dei lavoratori secondo la previsione già presente nell’articolo 46 della Costituzione, che indica molto di più di una concessione delle azioni ai dipendenti. Come ha fatto notare recentemente l’economista Tito Boeri, non c’è affatto bisogno di una legge particolare per permettere la distribuzione degli utili ai dipendenti. Non c’è mai stato un divieto, mentre si continua nella pratica di distribuire ricchi dividendi agli azionisti e sproporzionate retribuzioni alla dirigenza. In questo caso, si può aggiungere che una presenza dei lavoratori in un “consiglio di sorveglianza”, e quindi nel “comitato retribuzioni”, avrebbe evitato di giungere a quelle notevoli aberrazioni evidenziate in varie serie e documentate pubblicazioni.

Lavoratori e fondi speculativi
L’esistenza di un “consiglio di sorveglianza” è previsto dal modello “duale” di governo delle società a livello europeo che distingue gestione e controllo delle decisioni aziendali. La presenza dei lavoratori in questa posizione di indirizzo dell’impresa è prevista in diverse proposte di legge che non sono oggetto di votazione. Che la partecipazione non sia da ridurre a una distribuzione di azioni senza peso decisionale è un punto fermo del sindacato che si richiama esplicitamente al pensiero sociale cattolico. Una buona analisi la si può trovare nel testo Soci o salariati? edito da San Paolo nel 2006, alla vigilia dell’avvento della grande crisi economica. Gli autori, Baretta-Berrini-Gallo, partono dalla necessità di saper riconoscere la struttura del capitalismo contemporaneo senza isterismi inefficaci, ma sapendo reagire alla subalternità nei confronti del modello dominante che intende come solo fine dell’azienda quello di creare valore per gli azionisti.

In tale contesto la responsabilità sociale dell’impresa non si riduce ad aspetto decorativo ma diventa l’effettivo dispiegarsi di una democrazia economica. Quella che impone di modificare le regole del gioco, anzi richiede di far entrare diversi giocatori finora esclusi dalla partita. Così come previsto dalla possibilità aperta dal diritto societario europeo di avere al posto di un consiglio di amministrazione e collegio dei sindaci, la previsione di un consiglio di gestione e uno di sorveglianza, dove dare spazio ai rappresentanti dei lavoratori piuttosto che ai fondi speculativi abili ad assicurare margini di guadagno elevati agli investitori senza far crescere occupazione e innovazione. Adriano Olivetti si colloca perciò nel nostro possibile futuro piuttosto che in un passato da rimpiangere.

La frattura di Olivetti
Dalla logica della condivisione, del rispetto dei lavoratori, dall’armonia con il territorio è stato possibile, per Olivetti, proiettare l’Italia come pioniera del mondo dell’elettronica e dell’informatica. Una primazìa ceduta poi, dopo la scomparsa improvvisa di Olivetti, frettolosamente e rovinosamente a società statunitensi, con la regia di Mediobanca e la persuasione del gruppo Fiat. Un pezzo di storia che merita di essere studiato e approfondito per comprendere la crisi economica attuale.

Così come merita far leggere e commentare i testi di Olivetti come, ad esempio, il discorso di inaugurazione, nel 1955, dell’esemplare stabilimento di Pozzuoli a Napoli, pensato per rinsaldare rapporti “fraterni” tra Nord e Sud della Nazione, con la visione di una fabbrica «concepita alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». Ora come allora non si può non sentire, a livello nazionale e planetario, l’urgenza di Adriano Olivetti di dover «apportare una frattura definitiva al sistema basato su un duplice assurdo economico e morale: l’economia dei profitti e il regime feudale nell’industria e nell’agricoltura».

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