Olimpiadi, il mondo di nuovo “insieme”
Sono le otto della sera a Tokyo. La temperatura è alta, intorno ai trenta gradi. Il cielo, velato, fa da scenario ad un tramonto con sfumature dai colori mozzafiato. Nel nuovissimo Stadio Nazionale, impianto che potrebbe ospitare fino a 68.000 spettatori, ci sono appena un migliaio di persone. Purtroppo. Non proprio la cornice degna di un grande spettacolo quale è da sempre la cerimonia di apertura di una Olimpiade. Segno tangibile di un mondo che vive ancora sotto la minaccia della pandemia. Al centro dell’impianto c’è un uomo, ripiegato su sé stesso. Lentamente, si alza in piedi. Tentenna, poi comincia a correre. Vuole essere il simbolo della rinascita, di un “ritorno alla vita”. Degli atleti, certamente, ma in fondo anche un po’ di tutti noi, dopo la terribile esperienza che il Covid ci ha costretto a vivere nell’ultimo anno e mezzo.
In un’atmosfera un po’ surreale, sui maxischermi scorrono scene significative. Sono loro, gli atleti, che pur di arrivare a questo giorno si sono allenati nelle condizioni più “improbabili”. Allenamenti in solitudine, spesso arrangiati, magari fatti in casa tirando di scherma contro un manichino, invece che contro un avversario in carne e ossa. Esercizi eseguiti con attrezzi improvvisati in camera o nel giardino, anziché in comode palestre con vogatori, pesi o cyclette. La scena ritorna nello stadio e troviamo una ragazza che corre su un tapis-roulant. Nella vita è una sportiva, ma anche un’infermiera. Corre, e guarda dritto. Avanti. Nonostante tutto. Ormai il messaggio che vogliono dare gli organizzatori è chiaro: il pianeta ha avuto paura, ora c’è solo voglia di stare insieme, rispettando le sofferenze di tutti. Entra la bandiera della nazione ospitante, quel Paese che forse a un certo punto non li voleva proprio più questi Giochi, ma che alla fine ha deciso di aprire le porte a circa 11.500 sportivi. Per premiare i loro sforzi, la loro resilienza.
Effetti speciali? Neanche a parlarne. C’è poca voglia di stupire. L’intenzione, piuttosto, è quella di presentare al mondo una cerimonia “sobria” provando, al tempo stesso, a far trasparire comunque uno spirito di festa. Si va così avanti, e il Giappone prova brevemente a raccontare sé stesso. C’è tanto rosso, c’è il legno di cedro, e poi una variegata coreografia che porta a realizzare i cinque cerchi, il vero simbolo dei Giochi. A seguire, una scenografia bellissima, davvero geniale, con un parallelo artistico che unisce quasi all’unisono i movimenti tipici di un’orchestra con i gesti abituali degli atleti di tante diverse discipline. Il tutto, a fare da introduzione alla sfilata delle nazioni in gara. Con una grande novità rispetto al passato: ogni delegazione, questa volta, ha potuto scegliere anche due portabandiera e, nella stragrande maggioranza dei casi, la preferenza dei vari Paesi è ricaduta su atleti capaci di distinguersi in passato non solo per ragioni di natura squisitamente agonistiche.
In rappresentanza della Grecia, prima ad entrare come da tradizione, ci sono ad esempio il ginnasta Eleftherios Petrounias e la tiratrice Anna Korakaki, ragazza molto stimata in Patria per i suoi successi sportivi ma anche per essersi attivata in più occasioni in diverse iniziative a favore dei rifugiati di Drama, la sua città natale. Dopo la compagine ellenica ecco il Team dei rifugiati che, come ha affermato il presidente del CIO Thomas Bach, «rappresenta il vero spirito a cinque cerchi». Si va avanti, ed è la volta dell’Argentina, con i velisti Cecilia Carranza e Santiago Lange a precedere una delegazione che manifesta saltando, in pieno spirito sudamericano, tutta la gioia di essere presente a Tokyo. Santiago, 59 anni, disputerà qui la sua settima Olimpiade. Presente per la prima volta a Seul, nell’ormai “lontano” 1988, ha vinto un bronzo sia ai Giochi di Atene 2004 che a quelli di Pechino 2008, ma è stata la vittoria ottenuta a Rio 2016 nella classe mista Nacra 17, proprio insieme alla Carranza, a farlo entrare nei cuori degli appassionati di vela. Solo due anni prima, infatti, gli era stato diagnosticato un cancro, con successiva asportazione di una parte del polmone.
Arriva il turno dei nostri. Guidata da Elia Viviani (oro nel ciclismo su pista ai Giochi di Rio 2016) e da Jessica Rossi (per lei vittoria nel tiro a volo a Londra 2012) l’Italia, proprio nel giorno dell’ottantesimo compleanno del presidente Mattarella, sfila in tenuta bianca, con una divisa ideata per l’occasione da Giorgio Armani. I nostri rappresentanti non passano certo inosservati. Sventolano con gioia il tricolore e lo fanno, curiosamente, entrando in pista proprio tra due Paesi tradizionalmente ostili tra di loro (Israele e Iraq). La sfilata procede ed ecco la Georgia, con colei che è considerata una vera e propria “icona” dei Giochi. Si tratta di Nino Salukvadze, una tiratrice di cinquantadue anni nativa di Tbilisi, che qui a Tokyo diventerà la prima donna della storia a gareggiare in nove edizioni olimpiche. Nino, nome femminile dalle sue parti, ai Giochi di Pechino del 2008 si è resa protagonista di un gesto altamente significativo già passato alla storia. Salita sul podio per ricevere la medaglia di bronzo insieme alla russa Natalia Paderina (vincitrice della medaglia d’argento), ha abbracciato la sua avversaria, sorridendo e stringendole la mano proprio in un momento in cui Georgia e Russia erano in piena guerra.
Arriva il momento dell’entrata della Tunisia, con la schermitrice Ines Boubakri prima donna ad avere l’onore di fare da portabandiera della propria nazione nella cerimonia di apertura di una rassegna olimpica. Specialista del fioretto, Ines è particolarmente sensibile alle lotte che le donne stanno conducendo per la parità di diritti fra i due sessi. «Fare portare la bandiera a una donna è un messaggio forte rivolto alle donne del mio Paese in primis, e più in generale all’intero mondo arabo e africano, mostrando che la Tunisia lavora per i diritti delle donne e la parità di genere», si legge in un post sul suo profilo Facebook. «Durante la mia carriera, sono stata ispirata da tante donne coraggiose e ambiziose, e oggi tocca a me fare da modello per far desiderare alle ragazze di praticare uno sport sano, per diffondere i valori dell’Olimpismo, ovvero l’amicizia, il rispetto, l’eccellenza. Il tutto, senza discriminazioni di alcun tipo».
Anche se con un numero di atleti contingentati, e con l’obbligo delle mascherine, una dopo l’altra sfilano così tutte le 206 delegazioni in gara (assente solo la Corea del Nord), in un tripudio di mille colori, con ogni nazione che ha proposto una divisa originale, ispirata ai colori della propria bandiera. Ultimi a fare ingresso in pista sono i padroni di casa del Giappone. Per il Paese del Sol levante l’onore di fare da portabandiera tocca al giocatore di pallacanestro Rui Hachimura e alla lottatrice Yui Susaki. Particolarmente simbolica la scelta del primo, impegnato da tempo sul fronte della lotta al razzismo e alle discriminazioni. Nello scorso maggio il cestista che gioca in NBA nei Washington Wizards, di madre nipponica e padre beninese, si è dato molto da fare per sensibilizzare il proprio Paese su questi temi, affermando che lui stesso ha ricevuto messaggi offensivi “quasi ogni giorno” sui social network.
Ci avviamo al termine della cerimonia e, al centro dello stadio, appare il nuovo motto olimpico. Nei giorni scorsi, infatti, alla tradizionale versione “Faster, Higher, Stronger” (più veloce, più in alto, più forte), Il Comitato Olimpico Internazionale ha voluto aggiungere la parola “Together” (insieme), perché è solo tutti insieme che si può superare il momentaccio che sta vivendo il pianeta a causa della pandemia. E la pelle d’oca fa la sua comparsa quando il logo di questa edizione, che poi diventa uno spettacolare globo che sovrasta lo stadio, fa da sfondo alle note di Imagine, il capolavoro senza tempo di John Lennon. Dopo i saluti “istituzionali”, e i sentiti ringraziamenti al popolo giapponese da parte del presidente del comitato organizzatore Seiko Hashimoto e del presidente del CIO Thomas Bach, fa ingresso nello stadio la bandiera olimpica. A portarla sei atleti tra cui la nostra Paola Egonu, pallavolista ventiduenne che è stata scelta dal Comitato Olimpico Internazionale per rappresentare gli atleti di tutto il mondo. Per i suoi meriti sportivi (Paola è considerata attualmente una delle giocatrici più forti a livello internazionale), e per il suo impegno a favore della campagna vaccinale.
Ora siamo giunti davvero alla fine. Le note dell’inno olimpico, una riuscitissima e giocosa presentazione dei 50 pittogrammi simboli delle discipline di questi Giochi, un momento di teatralità tipico giapponese, il tutto in attesa dell’ultimo atto ufficiale, come sempre uno dei più emozionanti: l’accensione del tripode olimpico realizzato, per l’occasione, richiamando uno dei simboli di questo popolo, ovvero un fiore di ciliegio che si dischiude. La scelta sull’ultimo tedoforo alla fine è ricaduta su Naomi Osaka, già numero uno del tennis mondiale. Dopo quasi quattro ore Tokyo ci saluta, dandoci il suo particolarissimo e “composto” benvenuto. E facendoci riflettere sul fatto che questa Olimpiade sarà diversa da qualsiasi altra precedente. Inevitabilmente influenzata da un ostacolo “nuovo”, diverso da qualsiasi altro abbiamo mai dovuto affrontare prima. “Uniti dall’emozione”, questo il titolo della cerimonia, perché il mondo, fisicamente separato, torni ad essere davvero unito. Perché insieme, si può fare!