Olimpiade, quale eredità?

Si è detto molto dell’ipocrisia olimpica, del professionismo e del business che rodono anima e corpo dello sport. Chi si disinteressa dello sport lo fa, in genere, perché lo considera una fuga dalla realtà, circensi per distrarre il popolo. Eppure le Olimpiadi sono sembrate un consolante ed a tratti nobile ancoraggio alla concreta e pacifica sostanza delle pratiche umane, del sudore e del talento, delle tecniche e del felice sforzo di realizzazione degli individui. Di questi tempi è la realtà a sfuggire, a svoltare per le terrificanti vie della stupidità bellica, dell’odio razzista e della pazzia terrorista. Negli ultimi anni impratichirci con nuove etnie o nazioni ha significato prendere atto di una nuova guerra o di un genocidio. Sotto i cinque cerchi abbiamo visto incrociarsi volti e corpi di ogni colore e fattezza senza che alcuna discriminazione potesse disturbare la ricezione dei diversi spiriti nazionali ed inni e bandiere hanno potuto mescolarsi in un clima di unità oggi francamente introvabile altrove. Le immagini di Atene ci hanno fatto scoprire ed amare i fenomenali mezzofondisti arabi, gli stoici lottatori orientali, i forzuti caucasici, i cinesi che studiano da americani, i tonni australiani, gli infallibili arcieri sud-coreani. Ma abbiamo anche scoperto che i cinque atleti afghani (tre uomini, due donne) sono potuti venire ad Atene perché spesati dagli iraniani; che i tempi cambiano ed una dozzina di atleti azzurri sono di colore; che gli indonesiani vanno matti per il badminton (e ne hanno a male se continuate a chiamarlo volano) mentre a Taiwan stravedono per il taekwondo; che i giapponesi non sono superiori solo nel judo (la medaglia d’oro nella maratona femminile è nobile); che nessuno al mondo solleva tanti chili (472,50!) quanto l’iraniano Hossein Reza Zadeh o la cinese Gonghong (305!); che gli svedesi in estate non fanno sci di fondo, ma saltano come i matti (oro nell’alto e nel triplo); che il baseball negli Usa ormai lo sanno giocare solo le donne (terzo oro olimpico di fila, maschi a casa); che il più bravo a centrare piattelli a colpi di fucile si chiama Ahmed Al Maktoum, di professione sceicco a Dubai, forse perchè può permettersi di frantumarne 150 mila l’anno contro i 20 mila dei rivali. Abbiamo anche potuto constatare con piacere che l’indigestione di medaglie (cinque in sei Olimpiadi) non hanno montato la testa al velista Torben Grael: sì proprio lui, il tattico di Luna Rossa, ci ha commossi quando ha dedicato il successo ai meninos de rua, ai ragazzi di strada di Niteroi, una spiaggia vicino a Rio, per i quali ha aperto una esclusiva scuola di vela non per farne dei campioni, ma solo per toglierli dalla strada. Ed abbiamo riscoperto che nello sconforto della sconfitta e nella esultanza della vittoria tutti gli uomini si assomigliano. Anche gli americani arrivati ad Atene con l’ordine di non esagerare, di questi tempi, nell’esultanza sul podio. L’Urss, eterna rivale, non esiste più da tempo; ma se le nazioni che ha generato fossero ancora assieme con i 45 ori conquistati (contro i 35 Usa) sarebbero ancora i sovietici in cima al medagliere. Ed è proprio il medagliere a confermare che la mappa dello sport sta cambiando. In vista di Pechino 2008, la delegazione cinese ha invaso Atene. Non solo con i suoi 407 atleti, ma con ben 633 persone tra dirigenti, funzionari, tecnici, specialisti delle pubbliche relazioni ed esperti nel prendere nota di tutto. Si intuisce una burocrazia dominante, retaggio di indistruttibili apparati, con un presidente del comitato olimpico cinese che conta su ben 15 vice-presidenti! I Giochi che stupiranno il mondo e che faranno impallidire la storia delle Olimpiadi recita uno slogan che promuove Pechino 2008. Non sappiamo se questi dirigenti riusciranno a stupirci: lo faranno di sicuro gli atleti cinesi. Non solo perché giocheranno in casa (senza rancore, ma qualche medaglia ai greci ha un sapore strano …), ma perché ad Atene hanno cominciato a vincere anche in quelle discipline non inquadrate nella loro cultura (canoa, windsurf, tennis), portando a casa 31 titoli, con 61 medaglie, ed il primato nel medagliere femminile. Spiccano gli ori inattesi della Luo Xuejuan nei 100 rana, della Xing Huina nei 10.000 metri, ma soprattutto quello di Liu Xiang nei 110 ostacoli con tanto di record mondiale. Mette paura soprattutto come prendono le cose molto sul serio: sapevate che in Cina è vietato fidanzarsi tra giocatori nell’anno olimpico, pena l’esclusione (di lei!) dalla squadra? Fino ai prossimi Giochi, sulle vicende della maggior parte degli sport che ci hanno deliziato l’estate si spegneranno i riflettori: per quattro anni non vedremo gli specialisti del trampolino elastico, le lottatrici, i tiratori, i triathleti, forse nemmeno gli schermidori. Ci mancheranno. Anche perché hanno contribuito a convincerci che in un mondo devastato come il nostro lo sport ha nuove responsabilità. Non certo quelle di saper cancellare da solo guerre e violenze, ma nemmeno solo quello di restituirci, nel turbine quotidiano di corpi straziati da bombe, immagini di armonia e bellezza del corpo, anche se alla ginnastica ed al nuoto sincronizzato i nostri occhi sono debitori di ore di serenità. Ma almeno la spinta a credere che l’uomo sa, se vuole, offrire pace e salute ai suoi simili.

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