Olanda, sì all’eutanasia anche per i bambini
La notizia ha fatto scalpore: i Paesi Bassi hanno esteso la possibilità di eutanasia anche per i minori di 12 anni affetti da malattie incurabili. Si tratta in realtà di un’estensione del protocollo già valido per i neonati fino a 12 mesi, ai quali era già applicabile l’eutanasia in caso di malattie a prognosi infausta, che causino sofferenze definite come insopportabili, e per le quali le cure palliative sono insufficienti. Si stima che rientrino in questa definizione dai 5 ai 10 casi l’anno. Naturalmente è codificata anche la procedura per arrivare a quest’esito: dalla certificazione dell’impossibilità di cura o trattamento per il dolore anche da parte di un medico terzo, al consenso di entrambi i genitori (che peraltro oggi non è necessario a partire dai 16 anni). Inoltre, ogni caso sarà trattato da una commissione presieduta da un avvocato penalista. L’Olanda, primo Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia nel 2002, diventa così il secondo a legalizzarla per i bambini – il primo era stato il vicino Belgio nel 2014; contando peraltro, secondo un sondaggio, sul favore della maggior parte degli operatori sanitari. Per il resto, in Europa l’eutanasia attiva è consentita solo in Lussemburgo dal 2009; quella invece passiva (ossia il sostegno al malato ad assumere i farmaci, o l’interruzione delle cure) è consentita in Svizzera, Spagna, e Finlandia; in Svezia e Danimarca è ammessa solo l’interruzione delle cure su disposizione del paziente, mentre Francia e Portogallo stanno legiferando in materia.
Il tema è naturalmente spinoso, e solleva molte perplessità (come si definisce una sofferenza insopportabile, o una cura palliativa inadeguata? E che ruolo ha in tutto questo il bambino, che a quell’età non ha presumibilmente coscienza di che cosa significhi l’eutanasia?). Se da un lato il rispetto per queste situazioni dolorosissime che possono portare un genitore a decidere di mettere fine alla vita figlio non deve indurre a tacere la propria contrarietà, dall’altro esige la massima delicatezza nell’esprimerla.
Così come esige la massima consapevolezza di che cosa si può fare, e invece non viene fatto, anche nel nostro Paese, per garantire a questi bambini e alle loro famiglie un accompagnamento: secondo la Società Italiana di Pediatria, non più del 15 per cento (secondo le stime più pessimistiche addirittura il 5) degli oltre 30 mila bambini che avrebbero diritto alle cure palliative può effettivamente accedervi, in ospedale o a domicilio. E non aiuta il fatto che sono solo sette (più tre in fase di attuazione) gli hospice pediatrici attivi in Italia: Genova, Torino, Milano, Napoli, Padova, Roma e uno in Basilicata. E non parliamo solo di bambini malati terminali: le cure palliative infatti riguardano anche tanti bambini che hanno sì una malattia non guaribile, ma che consente comunque quantomeno di sopravvivere – e pone quindi il diritto anche di vivere, nel senso pieno del termine, in maniera dignitosa sia per il bambino che per la famiglia. C’è quindi ancora di che lavorare per dare piena attuazione alla poco conosciuta legge 38 del 2010, che riconosce appunto la specificità dei bisogni del bambino e delle famiglie nel ricevere le cure palliative, per evitare che al dolore della malattia si sommi anche quello di non ricevere assistenza adeguata.