Ok alle valutazioni, ma…
I nuovi test “Invalsi” in italiano e matematica: istruzioni per l’uso.
Ricordate i test Invalsi (Istituto italiano di valutazione) del maggio scorso? I test di livello su scala nazionale, in italiano e matematica, somministrati agli alunni delle seconde e quinte elementari e delle terze medie? Ebbene, dopo averli corretti, l’Istituto destinato alla valutazione del sistema educativo, restituisce i dati alle scuole. Ovvero ha reso consultabili su Internet i risultati di ogni classe, che potranno essere confrontati con la media ottenuta dall’intero istituto, con quella regionale e con quella italiana.
L’iniziativa nasce sotto i migliori auspici: ogni docente potrà verificare il lavoro svolto e misurare i traguardi raggiunti dalla sua classe. In questo modo si intende colmare un ritardo che il Belpaese ha accumulato negli anni a fronte di una assai diversa situazione europea. Al di là delle Alpi la valutazione su scala nazionale di alunni, insegnanti e dirigenti scolastici è la norma, pur se con notevoli differenze e alcune significative eccezioni. L’impatto è su determinazione della carriera scolastica degli allievi, individuazione dei bisogni di apprendimento dei singoli discenti, miglioramento degli istituti e monitoraggio della qualità dell’istruzione.
Tra gli aspetti problematici rilevati, l’impiego di molte risorse, non solo per preparare i test, quanto soprattutto «per introdurre e mantenere una cultura della valutazione intesa come opportunità di formazione e non di selezione». Grande inoltre appariva il rischio che, anziché concentrarsi sul processo d’apprendimento, si fosse tentati di preparare gli allievi esclusivamente a superare i test, oppure che, nel formare le classi, si tendesse ad escludere gli alunni meno dotati per non veder scendere l’indice di rendimento.
Probabilmente, però, il rischio maggiore da rimarcare è quello legato alla possibilità che istituzioni, dirigenti scolastici e genitori valutino in modo approssimato la qualità della didattica dei singoli docenti. Non a caso, sono questi ultimi ad opporsi alla valutazione su scala nazionale di alunni, insegnanti ed istituti. La preoccupazione risiede nel fatto che, pur dopo le dovute rassicurazioni, sarà facile riferirsi a quei dati per un giudizio senza appello sulle capacità dell’insegnante o sullo scarto (peraltro già prodottosi) fra le due o forse tre Italiette che occupano la penisola.
Certamente la valutazione dei docenti (come del resto quella dei dirigenti scolastici) è, al pari di quella degli alunni, un’esigenza improcrastinabile. In tale ambito, l’Italia è veramente la cenerentola d’Europa. Come si legge in alcuni brevi focus del Piano nazionale di qualità e merito, la situazione d’oltralpe sembra differire significativamente da quella del nostro Paese. In Francia, per esempio, la valutazione è in mano a ispettorati territoriali, sotto la responsabilità del ministero; in Inghilterra ci pensa l’ispettorato nazionale; in Spagna gli ispettorati nelle Comunità autonome; in Germania, infine, il ministero dell’Educazione del land valuta tramite gli ispettorati scolastici.
L’Italia in questo contesto è fra i pochissimi Paesi che sembrano non tener conto dell’importanza che una valutazione del personale e degli istituti scolastici avrebbe sulla valorizzazione della professione educatrice e delle agenzie ad essa destinate. Perché, sia detto per inciso, in tutti i Paesi europei l’insegnamento gode di un prestigio sociale e una valenza civile di cui in Italia si è persa ogni traccia. Da noi, caso unico, il mandato educativo è nazionalesolo teoricamente (attraverso i programmi e le indicazioni ministeriali), perché i singoli docenti sono poi liberi quanto ai modi e perfino quanto all’eventualitàdell’attuazione. Ma proprio per questo non hanno copertura né dallo Stato né dalla comunità, e devono legittimarsi individualmente rispetto ai propri utenti, salvo essere investiti da un discredito diffuso per la mancanza di valutazione del loro operato.
Sembrerebbe dunque che un aggiornamento in questa direzione potrebbe migliorare non solo il livello generale dell’istruzione, ma perfino lo status degli insegnanti che, appunto, è tra i peggiori d’Europa. Una verifica degli obiettivi raggiunti da ogni classe, resa pubblica e confrontabile con quella degli altri istituti della penisola, sarebbe insomma il primo passo per un adeguamento della scuola italiana agli standard europei.
Però le classi non sono equivalenti: alcune partono con grossi vantaggi, sicuramente quelle i cui insegnanti non cambiano nel corso degli anni, quelle situate nei quartieri benestanti delle grandi città o nelle floride regioni del Nord Italia, quelle in cui gli alunni stranieri sono pochi e bene integrati. In molte scuole, inoltre, le eccellenze vengono concentrate in un numero limitato di classi, in genere quelle delle prime sezioni. In tutti questi casi (per tacere degli altri) i risultati raggiunti sono senz’altro merito del docente, ma anche – perché non riconoscerlo – delle circostanze.
Ora, il punto è capire come e se l’Invalsi, il nostro istituto nazionale di valutazione, abbia provveduto a dare conto anche di tutte queste informazioni aggiuntive e sostanziali, da cui potrebbe derivare un’effettiva utilità dei test. Perché una cosa è la classe che parte da otto e lì si ferma, un’altra quella che parte da quattro e arriva alla sufficienza. Forse a dar retta ai numeri la prima resta migliore, ma l’insegnante della seconda, benché ciò non emerga dai test nazionali, è davvero bravo e i suoi alunni hanno dimostrato di essere capaci di prestazioni che quelli della prima classe, sempre a dar retta ai numeri, probabilmente non sono in grado di effettuare.
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I test oggettivi
Qualche domanda a Mimma Siniscalco, collaboratrice dell’Invalsi.
A che serve il servizio nazionale di valutazione?
«L’obiettivo è duplice: monitorare i risultati del sistema scolastico verificando i livelli di apprendimento degli studenti in italiano e matematica, e fornire alle scuole informazioni che le aiutino a capire come vanno e a progettare interventi per migliorare. La prova nazionale all’interno dell’esame della III media, inoltre, rientra nella valutazione finale degli studenti. È chiaro, c’è differenza nel punto di partenza di studenti ed insegnanti di scuole diverse. Però il giudizio del singolo insegnante, pur essenziale, da solo non basta: servono anche prove oggettive, che diano risultati indipendenti dalla persona che opera la valutazione e dal contesto. Portare alla luce disparità a livello geografico tra scuole o tra classi all’interno della stessa scuola può aiutare le scuole ad intervenire, a cercare le soluzioni giuste. Il semplice mettersi insieme a lavorare per il miglioramento, basandosi su dati che hanno lo stesso significato per tutti, è una cosa positiva. Ogni scuola riceve informazioni molto ricche, con tabelle e grafici spiegati in modo dettagliato».
Un genitore può avere accesso a queste informazioni?
«Dipende dalle singole scuole. Le prove attualmente vengono fatte tra maggio e giugno, in seconda e quinta elementare, in prima e terza media. Prima o poi dovrebbe partire anche la scuola secondaria superiore. Un rapporto annuale pubblica poi i risultati su base nazionale e regionale, basandosi su un campione di scuole, mentre ciascuna scuola riceve i propri risultati».
Tutto bene, dunque?
«Attenzione: la valutazione è un termometro per sapere se la febbre c’è o no, ma non è la cura. Non deve diventare un’ossessione, per cui tutto l’anno si addestrano i ragazzi a superare i test. L’obiettivo della scuola è quello di sviluppare conoscenze e capacità fondamentali. Le prove sono solo uno strumento che aiuta a capire se si va nella direzione giusta».