Ogni sera è la prima sera
È un signore mite e dolce, Claudio Scimone. Ma sul podio, il gesto chiaro e preciso, sprizza scintille, unendo così il fuoco siciliano del padre (un ragusano di Scicli) alla compostezza veneta della madre, di Padova, la città dove il Maestro vive e lavora. I Solisti Veneti fanno musica dal lontano 1959. Come avete cominciato? “Eravamo dei giovani strumentisti, appena diplomati a Venezia o a Milano, desiderosi di far conoscere un patrimonio musicale meraviglioso, il Barocco veneziano del Settecento – Vivaldi Albinoni Tartini – e di rivelarlo nella sua vera luce. Perché, all’epoca, queste musiche, quando le si eseguiva, parevano delle marcette tutte uguali. Invece si tratta di lavori nati da una grande sofferenza, il Barocco è un periodo drammatico, c’era una censura severissima. Importante per noi era capire il vero clima di questo tipo di musica, la gran- de differenza fra le personalità dei compositori: il che richiede approfondimento e passione per un periodo che non é così evidente come quello romantico. Anche perché la scrittura musicale era piuttosto stenografica e si lasciava spazio all’improvvisazione…”. Una prassi che voi avete riportato in uso. “Sì, con degli splendidi risultati, perché ogni concerto diventa una cosa nuova, ogni sera è la prima sera, perché è sul momento che si improvvisa. Infatti, gli stessi testi musicali ci aiutano fino ad un certo punto se non riusciamo a conoscere per altre vie questi compositori e a realizzare le loro idee, col cambio espressivo che ci arriva a tre secoli di distanza e che comunque deve essere attuale. Perché il fenomeno della musica si produce nel rapporto fra l’esecutore e l’ascoltatore: quello è il momento in cui il miracolo musicale diventa miracolo vivo”. Voi avete anche un secondo obiettivo, quello di esplorare tutta la grande scuola d’archi veneziana, fino ai nostri giorni. “Certo, stimoliamo i compositori attuali: abbiamo già una cinquantina di lavori scritti per noi da musicisti come Bussotti, Donatoni, Guaccio, Riccardo Malipiero… Ma già negli anni Settanta abbiamo esplorato tanto repertorio contemporaneo, partecipando a tutti i festival di musica d’oggi. Da giovani, viaggiavamo molto, avevamo anche un’aspirazione turistica. Non prevedevamo prevedevamo che i viaggi più importanti li avremmo fatti in quattro metri di spazio, perché erano i viaggi nel dominio dello spirito, alla ricerca di una verità, di poter dire un qualcosa con quella musica”. A parte il contemporaneo, voi siete celebri nel mondo per la musica di Vivaldi e compagni… “Quella è una musica straordinaria perché, come dice un autore dell’epoca, ha la capacità di “poter essere costantemente modernizzata da un esecutore giudizioso”, cioè aperto all’improvvisazione. Per questo è più comunicativa di altre, qualora non si abbiano problemi tecnici, e ci si possa abbandonare volta per volta ad un libero dialogo con il pubblico. Ogni sera allora è la prima serata della nostra vita, un pezzo lo si esegue sempre come per la prima volta. È il bello di un repertorio che si mantiene e ci mantiene giovani “. Il complesso è infatti formato da parecchi giovani. “Certo, il numero va dai sedicidiciassette per le Stagioni di Vivaldi ai sessanta per Rossini. Comunque, i nostri, sono solisti di nome e di fatto, ciascuno può suonare Paganini facilmente, hanno una lettura “a prima vista” perfetta. Per questo anche il numero di prove é ridotto, si tratta più che altro di assimilare un linguaggio, un discorso espressivo che si fa tutti insieme, più che volta per volta: ogni concerto è una prova per il prossimo concerto. Sa, io credo che la musica sia una specie di vocazione: i musicisti sono un po’ dei profeti, specie i direttori d’orchestra, devono avere una visione di un valore superiore che non é quello della vita di tutti i giorni, perché si passa anche attraverso esperienze sgradevoli, per riuscire a perfezionarsi, a maturare”. Dopo anni di lavoro esclusivo con i Solisti, ora si dedica anche alla direzione d’orchestra. “È stata un’attività sfibrante, per diverso tempo, cercare spazio per noi dei Solisti, abbiamo avuto aiuti solo da qualche amico: i primi contributi pub- blici li abbiamo ricevuti dopo oltre dieci anni di esistenza e tuttora, rispetto all’attività che svolgiamo, il nostro gruppo conta su aiuti minimi in confronto ad altri magari meno noti… Per questi motivi, ho esordito tardi nella direzione d’orchestra”. Ma alla grande, al Covent Garden di Londra, nell’81, dopo aver studiato con Ferrara e Mitropoulos in gioventù. “Quando ho incontrato Mitropoulos nel ’59 a Salisburgo, la mia vita è cambiata. Lui era straordinario, un mistico anche: gli regalammo con mio padre I Fioretti, e ci accorgemmo che li sapeva a memoria… Ma, tornando all’esordio londinese – che fu un grande successo di critica per un “novellino” come me – in realtà nel ’71 a Verona avevo diretto l’Orlando Furioso di Vivaldi, un fiume di fuoco”. Eccoci di nuovo al “Prete rosso”. Ma che tipo era costui? “Era un tipo che tendeva a nascondersi, un prete che non diceva messa, gestiva teatri, ma aveva una profonda fede religiosa. Era energico, ma si nascondeva come dietro a un gioco di luci e di colori, per cui a un certo punto ciascuno può prestare a Vivaldi sé stesso, l’ascoltatore può sempre riconoscersi in lui: per questo chiunque – dal Giappone alla Patagonia – l’ascolti, sente quella caratteristica “veneta” del parlar chiaro, semplicemente, dicendo cose molto ricche, profonde e complesse”. Un po’come la pittura degli artisti, da Veronese a Tiepolo. “È la grande tradizione veneta dell’unità delle arti: Vivaldi è stato definito il “pittore della musica” ed in effetti, sentendolo, si pensano i cieli di Tiepolo e i paesaggi di Veronese. Ma le sue musiche andrebbero eseguite nelle ville o nelle chiese veneziane, sempre”. Lei ha affermato di sentirsi “direttore di opera”, con una predilezione per Rossini e Puccini. Cosa prova quando dirige? “Una grandissima gioia, sono i momenti più belli dell’esistenza. Il difficile e il faticoso è il lavoro meticoloso di preparazione, ma poi quando arriva il momento dell’esecuzione in sala col pubblico, è una grande festa del musicista: un momento gioioso in cui si celebra un rito bellissimo. Lo scopo della musica infatti è quello di far in modo che ogni essere umano si senta bene con sé stesso e con gli altri, grazie ad essa possa trovare il lato positivo della propria personalità. Da questo punto di vista, ho avuto dei dialoghi molto appassionanti con persone malate, le quali sentivano il bisogno della musica per ritrovare loro stessi in mezzo alle sofferenze. Perché la musica eleva, ma nello stesso tempo concilia con sé stessi. Per me è quello che per gli orientali è il pensiero zen: qualcosa che supera la parola e il pensiero, per cui tutti sentono la stessa cosa, si trasferiscono in una sfera ove si sentono bene; se poi si ridiscende al pensiero e alla parola, non troveremmo due persone uguali, ma tutti hanno fatto la medesima esperienza”. Torniamo ai Solisti. Siete stati in 73 nazioni, quest’anno anche in Vietnam, Bangladesch, Algeria e Oman. Come avete trovato il pubblico e i musicisti? “Abbiamo fatto delle scoperte: a Singapore, suonavamo Brahms con Uto Ughi, ci siamo guardati in faccia perché non ci a s p e t t a v a m o un’orchestra di tale livello. Riguardo al pubblico, non ci sono problemi. L’importante non è che conosca o meno la musica, ma che desideri vivere in quel momento quell’esperienza: è questo il dialogo vivo, siamo noi musicisti che dobbiamo poi avere qualcosa da creare e da dire all’ascoltatore. Lei appare una persona serena. Mai avuto momenti duri? “Di quelli ce ne sono tutti i giorni, più o meno. Se penso che oggi la musica in Italia dipende troppo dai pubblici poteri e dalla burocrazia… Ma con l’amore e l’entusiasmo si riesce a sopravvivere, anche se non si ha sempre quel che si vorrebbe. Credo però che bisogna avere il senso del limite, e questo dà serenità, che è la cosa più importante. Certo, devo ammettere che mi aiuta molto anche la pratica dello yoga”. E la famiglia, le è vicina? “Sono sposato “solo” da 37 anni; non abbiamo figli, perché dobbiamo ancora finire di goderci il matrimonio: poi, penseremo ai figli (sorride, ndr).