Ogni istante può essere decisivo
Domenica mattina. Con Dominik siamo alla fermata di un bus che ci porterà ad una località turistica. A quest’ora soltanto macchine in giro. Ai bordi della statale, appesantita da un traffico senza interruzione, attira la mia attenzione una casetta color senape con un piccolo pergolato. Vi sto passando avanti per l’ennesima volta. Evidentemente risale ad altri tempi, quando c’era campagna e degli antichi vigneti l’ultimo ricordo è questo pergolato che, con le ultime foglie color ruggine, dona alla casetta un ornamento bucolico. Il cancelletto è socchiuso. Non so spiegarmi perché, mi sento spinto ad entrare. La porta di casa è soltanto accostata. Entro. La piccola anticamera al buio mi conduce ad una stanza illuminata da un abat-jour. La stessa luce mi mostra un braccio pallido che esce da una manica di pigiama a righe grigio-celeste alla mia sinistra. Mi inoltro nella camera. Un uomo su un letto, con la testa leggermente affondata su due cuscini è pallidissimo. Mi guarda. Lo guardo. Silenzio senza confini. Non so quanto tempo passa e se passa. Con un gesto delicato abbasso le sue palpebre. Quasi mi dispiace chiudere quegli occhi che non fanno resistenza al mio gesto. Stringo la mano sinistra. Fredda, rigidamente fredda. Attorno tace tutto. Con una vita che finisce anche le cose che l’hanno colorata perdono significato. Non so definire il caleidoscopio di sentimenti che giocano in me: commiserazione, spavento, stupore, assieme a un’avvolgente calda pace. Tutto si è allontanato. I rumori, l’attesa del bus, la gita. Irruzione di mistero e silenzio. Nessun oggetto mi dice qualcosa. Quella mano sul comodino cercava aiuto? Torno sulla strada in cerca di Dominik che gironzola in attesa del bus. Cosa facciamo?. Chiamiamo il pronto soccorso, la polizia…. Quando arriva la polizia inizia una serie di domande. Non a tutte so rispondere. Chi sono?. Perché sono entrato?. Cosa ho toccato nella stanza?. Sono talmente scioccato che mi sembrano illogiche tutte le parole. Anzi più quegli uomini senza mimica moltiplicano le domande, più si allontanano da me. Lentamente diventano avversari, forse perché mi trattano da nemico. Quando mi invitano a salire sulla loro macchina per andare a deporre la mia testimonianza non so se sto sognando. Dominik è ri- masto sul posto. Ci siamo lasciati con uno sguardo che significava gita fallita. Su una sedia di formica rossa attendo di essere chiamato. In una stanza del commissariato vengono letti alcuni documenti presi in quella casa. Un pensionato solitario che ha un figlio negli Stati Uniti, una figlia da qualche parte in Europa. Una ex moglie chissà dove. Aveva fatto una discreta carriera in una banca e si dilettava a scrivere racconti per una rivista di piccola tiratura. Niente di rilevante. Una vita senza colore, dicono. Le domande, le stesse, fatte da nuove voci, mi riconducono davanti al cancelletto, sotto il pergolato. La porta socchiusa. Entro, seguo la luce, vedo un braccio, dove? in basso alla mia sinistra quasi a toccare un comodino illuminato, poi due occhi che mi guardano senza guardarmi, un volto bianco, un immenso silenzio. Sul comodino, ora che ci penso, risplendono due foto. Un ragazzo sorridente con un grosso pesce appena pescato. Una ragazza intensamente seria che suona al pianoforte. Davanti alle foto un’agenda. Una penna. Non so più come e che altro raccontare. Non so altro. Ma questo non basta. Perché sono entrato? Come spiegare che non lo so neanche io? E se la cosa non è chiara per me, figuriamoci per tutti quelli che devono redigere puntualmente un verbale e hanno bisogno di dati precisi, di fatti concreti! Non so quanto tempo sia passato. Nel pomeriggio torno alla casa dello studente dove divido la stanza con un compaesano. Mi butto sul letto. Chiedo a Peter di abbassare la radio mentre sgranocchia una mela davanti ad uno spesso trattato di anatomia.Mi vede stanco, te lo dico sempre che il riposo è stressante!. Meno male che non mi fa domande. Metto la testa sotto il cuscino. Il battito del cuore amplificato, come la batteria della radio già spenta, vorrebbe cullarmi. Poi improvvisa e inattesa torna la pace.Mi avrà visto? Il naso aquilino. Le mani affusolate. La pace sempre più grande mi libera. Chi era quell’uomo? Come lo chiamo ora che è entrato nella mia domenica? Per certi insospettabili sentieri del pensiero arrivo al punto di sentirmi vicino a quello sconosciuto. Sto pregando per lui, oppure sto invocando lui. Non so. Ritorna la sequenza, entro in quel silenzio della stanza appena illuminata dal paralume del comodino. Queste mie mani hanno stretto la sua. Volevo forse esorcizzare la morte? Capovolgere il corso del tempo? La casetta, il pergolato arrugginito dal freddo di settembre. Abitare su una via così trafficata? La sera, la direttrice, che mai si vede di domenica, è alla mensa.Mi sta cercando. Ha ricevuto una telefonata. Le hanno chiesto informazioni su di me. Lei, forse per aver dato garanzie, avanza su di me il diritto di sapere cosa è successo veramente. Ci sediamo ad un tavolo appartato. Lei ascolta tutto quello che le dico. Lo sa già. È pensierosa forse preoccupata della mia superficialità. Vedi, ognuno deve farsi i fatti suoi. Chi ti ha messo in testa di entrare in una casa sconosciuta? Ti rendi conto in quale pasticcio ti sei cacciato?. No, non mi rendo conto. E poi così tranquillo. Come se non fosse successo niente!. Signora! È morto un uomo che ormai è lontano dalle parole. Io sento d’aver trovato un amico e più parliamo, più sento che è giusto quello che ho fatto. Anzi forse è stato proprio lui a chiamarmi!. La direttrice si alza. È agitata, non finisce di ascoltarmi. Lei è sconcertata. Io no. Anzi vedo sempre più chiaro. Nei giorni seguenti altri due interrogatori che non aggiungono e non tolgono niente. Ai funerali mi vogliono incontrare il figlio Giorgio che vive a New York e Vanessa che fa uno stage a Berlino. Conosco anche l’ex moglie, elegante e senza pensieri, e poi altri parenti e conoscenti. Gente alla mano. Mi guardano con simpatia come se io avessi avuto una botta di fortuna. Giorgio ha il naso del padre. Vanessa ha le mani affusolate. Ma non solo perché è pianista. Passati alcuni giorni, i figli, stanchi di giri burocratici mi invitano ad una cena. Mi comunicano che la mia posizione ha perso importanza. Non devo temere. Mi parlano del padre. Da quando era andato in pensione, passava il tempo a curare quel piccolissimo pezzo di terra davanti e attorno alla casa, qualche breve viaggio da parenti o conoscenti e lettere frequenti ai figli cariche di notizie, informazioni. Non si era mai voluto trasferire da quella casa dove erano nati lui e i figli. Mandava a Vanessa tutto quello che risparmiava e i regali che riceveva dal figlio più benestante. A Giorgio forniva ami da pesca, libri. Della madre nessuna notizia in particolare. Un matrimonio naufragato di cui il padre non parlava e non dava a pensare che fosse una cosa negativa. Giorgio e Vanessa mi dicevano concordi che sempre si erano meravigliati di come il padre non avesse da ridire sulla madre, mentre lei, continuava a trovare nuovi motivi per giustificare la sua fuga dalla famiglia. Giorgio ha in mano l’agenda che avevo visto sul comodino. La pagina, segnata da una cartolina che gli aveva spedito proprio lui, è l’ultima scritta: La vita educa all’amore. Vostra madre mi ha maturato alla paternità e da quel momento non sono stato più quello di prima. Anche lei ha raggiunto il livello della maternità. Non ha retto, però, al suo peso. La maternità è un dono troppo pesante. Pesa ma è dono. Non ho saputo aiutarla? Da tempo non me lo chiedo più. Rifarmi un’altra famiglia? Vi avrei privati di un vostro primario diritto. E poi avrei interrotto la lezione che mi state facendo sull’amore. Sembra che siano i genitori a dare la vita ai figli. Siete voi figli che ci portate avanti. Il viaggio nell’amore non finisce mai. Quante volte ho disperso questo dono! Quando sei nato tu, Giorgio, non finivo di guardarti e stupirmi. La tua innocente fragilità mi ripeteva una tremenda immutabile meravigliosa verità: Ormai non ti appartieni più. La tua vita sono io. La tua felicità è nella mia felicità. Poi sei arrivata tu, Vanessa. Una sera ti eri addormentata fra le mie braccia e guardavo il cielo stellato. Ascoltavo il tuo piccolo respiro che sembrava mi sussurrasse: Ogni notte ti accendo una stella in cielo. Siate felici, come lo sono io. Papà. Giorgio sta piangendo. Vanessa è presa da uno stupore mescolato a commozione. Gioisco anch’io di un ineffabile dono. In loro rivedo quegli occhi che una settimana fa mi hanno guardato. Sì, mi hanno guardato e c’era anche una lacrima. Una cintura di perline colorate Tra le tante esperienze per la lotta contro l’Aids, quella che si svolge in Senegal e Burkina Faso ha una nota originale: una nonna ne è l’anima. Grazia Stefanini è una bella signora dal sorriso aperto, con una famiglia numerosa di tre figlie e sette nipotine. La sua vita è colma di affetti e di benessere. In età matura , quando di solito si pensa a godersi la pensione, le è accaduto di vivere un’esperienza non consueta di condivisione in Africa. Nei primi anni Novanta – mi racconta – per motivi di lavoro di mio marito mi trasferisco a Pisa da Milano. È un radicale mutamento della mia vita:una nuova città, le prime due figlie si sposano e la terza frequenta l’università, ormai anche l’assistenza ai nonni si è conclusa. Mi trovo a dover reimpostare di nuovo la mia vita. Da sempre nutrivo il desiderio di dedicare la mia vita a fare qualcosa per gli altri. Una mia amica mi chiede proprio allora di aiutarla a costituire un’associazione per assistere i malati di Aids in ospedale e a domicilio. Ma questa realtà mi fa paura, non mi sento adeguata. Comunque comincio ad impegnarmi. Mi si apre davanti un mondo fatto di emarginazione, solitudine, paura; ma basta un mio sorriso, la mia partecipazione al loro dolore, l’ascolto dei loro bisogni per ricevere in cambio rapporti veri. In quegli anni si costituisce l’Associazione Salus – Umanità nuova con i malati di Aids. Questo permette di intrecciare una rete di relazioni con le istituzioni pubbliche quali la Provincia e il Comune di Pisa, e la Regione Toscana. Con il loro apporto si possono organizzare, oltre al sostegno dei malati, anche campagne informative e formative nelle scuole medie superiori. Dopo anni di ascolto dei malati – prosegue Grazia -, alcuni di loro, africani, cominciano a parlarmi delle loro famiglie, dei loro villaggi, chiedendomi di intervenire in aiuto delle loro popolazioni di origine. Sono così nate delle missioni sociosanitarie in particolare in Senegal e in Burkina Faso per la formazione di personale sanitario e la sensibilizzazione e informazione alle donne dei villaggi rurali, per ridurre il contagio da Hiv tra mamma e bambino. Ma come avete impostato questi viaggi di missioni sociosanitarie?, chiedo a Grazia. Siamo partiti tre anni fa – mi spiega -. La prima delegazione era composta da un medico, un’infermiera specializzata in malattie infettive e da me con mio marito, che condivideva e sosteneva la missione. Il mio compito era quello di intessere rapporti con le istituzioni locali.Abbiamo tenuto brevi corsi di formazione nell’ospedale di Louga in Senegal, rivolti al personale sanitario. Successivamente siamo andati nei villaggi dove abbiamo incontrato le donne e le abbiamo informate sulle modalità del contagio, sensibilizzandole ad essere a loro volta formatrici nelle comunità di provenienza, in particolare promuovendo il test Hiv e focalizzando l’attenzione sulle donne incinte. La donna gravida infatti, se non opportunamente curata durante la gravidanza, trasmette il virus al bambino. La donna africana deve allattare il proprio figlio, e allora noi proponiamo alle donne portatrici di Hiv di allattare al seno per un periodo breve e poi di iniziare immediatamente a curare il bimbo. In tal modo si riduce drasticamente la trasmissione del virus. E quali sono stati i momenti più intensi del viaggio?, chiedo ancora. Il contatto diretto con le donne dei villaggi mi ha particolarmente emozionato. Le donne, provenienti da villaggi lontani diversi chilometri, arrivavano la mattina a piedi, assetate di conoscere la verità su questa malattia, che ancora viene vissuta come un tabù ed emargina chi viene colpito. All’inizio spaventate, si rassicuravano per l’amicizia che si instaurava, ed esprimevano la loro gratitudine chiedendoci di continuare ad aiutare i loro figli. E loro stesse si sono incaricate poi di trasmettere le conoscenze nel loro villaggi lontani. La loro gioia si manifestava con canti, danze e piccoli doni personali commoventi. Conservo ancora una cintura di perline profumata che le donne usano per rendersi più seducenti durante le danze di corteggiamento… Ma ho un altro ricordo significativo, la frase di un professore africano: Fino ad ora, quando avevo contatti con i bianchi, la parola che mi veniva in mente era razzismo; ora mi viene in mente fraternità. Grazia, cosa ha rappresentato per te questa attività che tuttora continua?, le chiedo ancora. Al di là delle difficoltà, ho la certezza che c’è la possibilità di costruire ponti fra i popoli. Possiamo aiutare concretamente l’Africa non esportando la nostra cultura e imponendo le nostre idee, ma ascoltando e facendo nostri i loro veri bisogni: contribuiamo così a far sì che diventino loro stessi i protagonisti delle azioni sociosanitarie necessarie. E la tua numerosa famiglia come ha preso questo tuo nuovo impegno? . C’è sempre da parte dei figli la preoccupazione che l’impegno sia troppo gravoso. Mio marito, dopo i primi momenti di perplessità, ha fatto suoi i valori del progetto, contribuendo ampiamente alla sua realizzazione. Certamente la testimonianza che offro di lasciare le mie comodità per aiutare persone sconosciute ha un effetto educante, soprattutto sulle mie nipotine. Sono sempre molto orgogliose della nonna, vogliono conoscere tutto della vita delle mamme e dei bambini dei villaggi africani. E sono più consapevoli di quanto posseggono sia come affetti sia sul piano materiale.