Oggi sarai con me in Paradiso

Nessuno entra da solo nel seno del Padre, neanche Gesù

Ogni giorno migliaia di persone passano su quello sperone di roccia, si prostrano carponi sotto l’altare e introducono la mano nel foro dove fu piantata la croce di Cristo. È difficile immaginare com’era duemila anni fa quel luogo di supplizio, ora sommerso da sovrastrutture secolari.

Erano tre, quel giorno, inchiodati sul patibolo. Sentirono il centurione che, in latino, in greco, in ebraico, leggeva la sentenza di condanna di Gesù Nazareno che si era proclamato re dei Giudei. Uno degli altri due rise e con sarcasmo lo insultò: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi». L’altro lo riprese, facendogli notare che loro due meritavano quel supplizio, perché dei delinquenti, ma lui, il Re, non aveva nessuna colpa, era condannato ingiustamente, era innocente. Rivolgendosi poi a Gesù, gli rese atto della sua regalità: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”. Era una duplice sincera confessore: l’ammissione di essere un assassino e il riconoscimento dell’innocenza di Gesù e della sua regalità. Aveva preso sul serio l’iscrizione vergata dal procuratore, Ponzio Pilato. Poneva in lui ogni fiducia, tanto grande quanto immeritata.

Come faceva a riconoscere in quell’uomo flagellato, coronato di spine, sfigurato, beffeggiato, un re? Che razza di Messia poteva essere se non era capace neppure di salvare se stesso? Cosa aveva di regale Gesù, in quel momento? Eppure il brigante lo tratta davvero da re. Forse per il suo comportamento. L’ha appena visto prendersi cura della folla e dei soldati, scusarli, chiedere per loro il perdono. Si era preso cura della madre e, perché non rimanesse sola, l’aveva affidata al discepolo amato. Pur sentendo la sete e l’abbandono di Dio, pur nel suo alto grido di dolore, quell’uomo sulla croce pensava ancora agli altri. Era questo che impressionava il ladrone crocifisso, così come subito dopo impressionerà il centurione che l’aveva crocifisso.

La tradizione ci ha ricamato sopra. Il Vangelo arabo dell’infanzia di Gesù, ha dato un nome ai due banditi, Tito il buono (il Vangelo di Nicodemo e gli Atti di Pilato lo chiamano invece Disma e la tradizione ortodossa Rakh) e Dumaco il cattivo. Briganti nati, avrebbero assaltato la santa Famiglia durante la fuga in Egitto, ma Tito si era commosso a vedere il bambino e lo aveva difeso da Dumaco.

Lasciamo le storie fantasiose e torniamo a quel crudo momento della crocifissione. «Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno». Lo chiama per nome, come non aveva fatto nessun altro dei molti personaggi quel giorno presenti al processo e sul luogo del patibolo, come mai era stato chiamato lungo tutti i Vangeli, neppure dai discepoli più intimi. Lo chiamavamo Signore, Maestro, Figlio di David. Soltanto lui, il delinquente, l’assassino, lo chiama per nome, come faceva sua mamma Maria.

Lo chiama per nome, segno di umanità, di affetto, di vicinanza. È anche lui maledetto da Dio, perché pende dal legno, fuori delle porte della città. Per questo, come nessun’altro, sente Gesù vicino a sé, compagno che condivide la medesima condanna, con l’onta e il patire. E insieme parla del suo regno, riconoscendo in quell’uomo con-crocifisso la dignità regale, la capacità di riscatto e di salvezza.

Gli giunge così la più bella delle promesse fatte da Gesù nel Vangelo: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23, 39-43). Lo porterà in paradiso subito, “oggi”: quanta fretta, o meglio, quanta premura! Lo porterà con sé “sarai con me”: quale migliore compagnia! Lo porterà “in Paradiso”: quale ricompensa più bella, non per i crimini commessi, ma per la fiducia che ha mostrato nella sua misericordia.

È promessa, che richiede a Gesù di compromettersi: per aprire il paradiso al ladrone dovrà impegnare tutta la sua vita, dovrà morire. Ma anche Gesù ha la sua ricompensa, entra in Paradiso in compagnia di un altro. Nessuno entra da solo in Paradiso, neanche Gesù…

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