Oggi, cinquant’anni fa

Non sembri scontato. Trovare d’accordo tanto matematici e filosofi, quanto storici e analisti del presente, è un fatto ormai raro. Soprattutto se si tratta di convergere, in questi tempi di liquefazione sociale, di relativismo morale e di revisionismo storico sul fatto che 50 anni sono ancora mezzo secolo. Nella stagione dell’imperante giovanilismo occidentale, infatti, si occultano rughe e passato, si imbellettano ricordi e memoria. Resta tuttavia, quello del mezzo secolo, un traguardo significativo. Lo è tanto più per le aziende, nel contesto tumultuoso del mercato globalizzato. Se l’impresa opera nel campo editoriale, la meta è ancora più ardua. Se, poi, l’avventura inizia senza alle spalle capitani di lungo corso e capitali di pronta liquidità, il risultato è degno d’attenzione. Il giubileo della nostra rivista è l’occasione per rivivere – senza intenti celebrativi e senza derive nostalgiche – la nascita di una voce che ha accompagnato tanti italiani. L’idea di uno strumento che collegasse quanti erano entrati in contatto con il Movimento dei focolari si fece strada già nei primi anni del secondo dopoguerra, quando il gruppo dei membri della prima ora attorno a Chiara Lubich iniziò con celerità a crescere di numero e a diffondersi territorialmente. L’esigenza si fece più pressante e diffusa con l’inizio degli appuntamenti estivi, le cosiddette Mariapoli, che dal 1950 cominciarono a tenersi all’ombra delle Dolomiti. Eravamo a Fiera di Primiero – racconta Doriana Zamboni, una delle prime compagne di Chiara e componente della redazione per tanti anni -. Ricordo tutta quella gente che aveva trovato in Mariapoli soluzione ai propri problemi e risposta alle aspirazioni. Sarebbero ritornati nelle loro città, lontani gli uni dagli altri. Come avrebbero fatto senza alcun rapporto, dopo una tale esperienza comunitaria?, ci chiedevamo . Per qualche anno l’esigenza rimase un desiderio. Si dovette aspettare il 1954 per valutare più realisticamente la possibilità di realizzare un foglio di collegamento. In quell’anno – chiarisce don Pasquale Foresi, animatore della rivista sin dalla sua gestazione – si avvertì più esplicitamente l’opportunità che la spiritualità dell’unità espressa dal Movimento avesse anche una sua voce pubblica . Uno strumento di collegamento, dunque, ma niente di intimistico – precisa subito don Foresi -, inteso come un ripiegamento su sé stessi, sia pure su un piano spirituale e religioso. Non doveva mancare una seconda, complementare funzione: Affrontare alla luce di questo ideale comunitario profondamente cristiano ed umano i problemi che tutti incontriamo quotidianamente . Rientrati dalle Dolomiti nei nostri ambienti – mi raccontò Guglielmo Boselli, direttore dal 1975 al 2001 -, eravamo decisi a far nascere una città nuova sparsa nel mondo. Anch’io desideravo un foglio che ci facesse sentire uniti, riportasse le notizie sulla diffusione della nuova vita, ci nutrisse spiritualmente per tenere viva la fiamma che ci aveva accesi. Ma non era tutto. In conseguenza del nostro impegno quotidiano per risolvere i problemi umani, sociali e culturali, sorgeva la necessità di interpretare in modo nuovo i fatti. In definitiva, ideatori e potenziali lettori convergevano su tre prerogative: una funzione di collegamento, ma non esclusiva; un compito di formazione spirituale, ma non disancorato dalle notizie; un ruolo d’informazione, ma con inedite chiavi interpretative. La strada sembrava tracciata. E imminente l’inizio del cammino. Ma in quel 1954, riferisce don Foresi, il passaggio ad una pubblicazione ci appariva ancora distante. Motivo? Sapevamo benissimo che fare un periodico non significava certo mettere in piedi un’attività remunerativa. Le idee erano ottime. C’era solo un dettaglio: mancavano risorse finanziarie e persone competenti. Attorno al progetto si muoveva infatti gente animata dalle migliori intenzioni, ma inesperta per tutto quanto concerneva il settore della stampa. Bene. Anzi, male. Ci sarebbe stato da aspettare un sacco di tempo. La forza della cose o, meglio, la vitalità stessa del movimento riuscì ad anticipare quell’obiettivo, sia pure con strumenti modesti, quasi primitivi. Chiara – rammenta Doriana Zamboni – mise sotto tutti i primi focolarini e focolarine per vedere se eravamo capaci di scrivere per un giornale. Tra tutti, alcuni risultarono adatti. A noi – riferiva Boselli – non interessava tanto avere subito giornalisti provetti: ci stava a cuore che il giornale fosse espressione di una vita. Chi avrebbe scritto sulla rivista avrebbe dovuto portarvi, e comunicare, quel tanto di vangelo che avesse vissuto. L’ansia di Chiara – dice Bruna Tomasi, altra prima compagna – non era nata lì per lì. Da sempre lei voleva arrivare a tutti. Per questo, da tempo ci diceva: nascerà un giornale. E finalmente arrivò il giorno che mutò il corso della Storia: addì 14 luglio 1956, sabato. Cinquant’anni fa, appunto. La rivista vide la luce. 70 copie uscite da un ciclostile ad alcol. Esce Città nuova – si leggeva nell’articolo di fondo, redatto dalla fondatrice dei Focolari – giornale periodico riservato ai soli mariapoliti, a coloro che sanno apprezzare anche le notizie più piccole, ma che per loro sono grandi, perché ormai vivono in un mondo dove esiste tutta una misura diversa di giudizio, dove l’obolo della vedova vale più delle montagne spostate senza la carità. In chiusura, un auspicio: Ci auguriamo che questo giornale riesca ad adempiere le sua funzione di tutti collegare in questa città; e chissà che non sia il seme di quel giornale che da tanto attendiamo, che dovrà collegarci quando ritorneremo ai nostri paesi. Stiamo a vedere come va, sembra suggerire il realismo di Chiara: i nostri progetti sono più grandi, ma ci accontentiamo di questo foglio perché ci consente di iniziare. Chiara ci disse: è nato il giornale – rievoca Doriana Zamboni -. E ne avevamo un concetto così grande che pensavamo più ad un’agenzia di stampa internazionale che a un semplice foglio. Eravamo convinte che dalla nostra vita sarebbe nato qualcosa di grande, tradotto e spedito in tante nazioni, perché si trattava di qualcosa che andava oltre le razze, le culture, le religioni. Scalpitavano quei pionieri. E in quell’assolato luglio, l’attività fu per loro febbrile. Al primo numero fecero immediatamente seguito le edizioni dei giorni 16, 20, 24 luglio e 1° agosto, con una tiratura che, dalle 70 copie dell’esordio, salì prima a 120 e a 150, poi a 180, per toccare il tetto delle tre centinaia ad inizio agosto. Ricordo quei momenti in modo particolare – riferisce Bruna Tomasi -, perché Chiara affidò quel foglio a Vitaliano Bulletti e a me. A fine agosto, con la chiusura dei battenti della Mariapoli ’56, si recise il cordone ombelicale che legava la rivista al contesto temporaneo che ne aveva favorito nascita e primo sviluppo. Il periodico rimarrà il propugnatore di quelle idealità e del conseguente stile di vita, ma si distinguerà marcatamente da quell’appuntamento, senza sommesse nostalgie. La ridente valle di Primiero e l’imponenza delle Pale di San Martino erano ancora vive negli occhi dei mariapoliti, quando, tornati nelle proprie città, ricevettero per la prima volta a casa la rivista. Quel numero ebbe il sapore di un’edizione speciale. E lo fu anche per la redazione. Il periodico riprendeva le pubblicazioni dopo 50 giorni di sosta e segnò l’ingresso e la circolazione in società, in mezzo ai problemi con i quali voleva confrontarsi. Un impegno, questo, che non incuteva alcun timore reverenziale alla piccola redazione. Sembrava proprio che la sfida fosse attesa e i propositi quanto mai battaglieri, se viene lasciato alla penna di un giornalista e scrittore di fama come Igino Giordani – partecipe dell’avventura editoriale – l’incarico di comunicare, in quello stesso numero, l’imminente uscita del nostro giornale. Sarà un foglio, sul principio, quindicinale. Speriamo col tempo di farlo settimanale, e poi – chissa? – quotidiano. Quel foglio preannunciato non sarebbe stato altro, alla prova dei fatti, che Città nuova quindicinale. Dalle Dolomiti, la redazione si trasferì a Roma. Ricordo come fosse oggi il mio primo impatto con la sede della rivista – rievocava con gusto Gino Lubich, un giornalista vero, che aveva lavorato a l’Unità prima della conversione -. Mi apparve come qualcosa ai confini della realtà: consisteva in un tavolino con due sedie, due biro e mezza risma di carta, il tutto inserito in uno stanzone da disbrigo e da dispensa, fra pile di libri, mazzi di ombrelli, materassi accatastati. Don Pasquale Foresi dirigeva l’iniziativa, Danilo Zanzucchi impaginava e disegnava, Guglielmo Boselli, Spartaco Lucarini, Gino Lubich e Giordani scrivevano, Bruna Tomasi batteva a macchina, Vitaliano Bulletti pensava alla spedizione. Iniziarono anche le prime traduzioni, in francese e tedesco. Quasi tutti erano occupati anche su altri fronti, ad incominciare dalle loro professioni. C’era bisogno di qualcun altro che scrivesse. Così, l’avvocato torinese Vittorio Sabbione prese a tal punto a cuore la cosa che chiunque cadesse nella sua orbita suadente veniva ineluttabilmente attivato a scrivere. Data però l’assoluta incapacità a scrivere – riferì Gino Lubich -, gli articoli di questi collaboratori erano di solito belle riflessioni, profonde considerazioni, solide argomentazioni, talvolta persino raffinate omelie; eran tutto quello che volete, ma non erano articoli. Con tanta buona volontà, al massimo li si sarebbe potuti qualificare articoli di fondo. Ma si poteva fare un giornale tutto di articoli di fondo? Chiunque avesse avuto un’infarinatura in tema di mass-media non avrebbe scommesso una lira sul futuro di Città nuova. Invece, anche il navigato Gino dovette ricredersi. Sorprendentemente e a scorno di chi si riteneva esperto, la tiratura aumentava ad ogni numero e dai lettori piovevano lettere di entusiasmo. Commentava: Evidentemente in quelle riflessioni, argomentazioni, considerazioni, a prescindere dalla forma impropria, era contenuto un messaggio avvincente di cui tanti da tempo sentivano il bisogno. Era il periodo pionieristico d’una novità agli inizi. Dietro ogni numero c’era un impegnativo lavoro, ad incominciare dalle matrici che dopo qualche centinaio di copie si scioglievano. Il 15 gennaio 1957 fu distribuito l’ultimo esemplare tirato con il ciclostile: 4 mila copie. Ci volle una settimana per stampare tutte le pagine. Decine di persone, suddivise in squadrette, provvedevano alla stampa, a mettere le graffette ad ogni copia, a piegare il giornaletto, a scrivere gli indirizzi, a spedire. Un amico – è ancora Gino Lubich -, al quale un giorno raccontammo della nostra attività, ci disse che esisteva la stampa, che era stata inventata apposta alcuni secoli prima per evitare quella fatica . Il passaggio alla stampa tipografica sarebbe stato immediato. Ma del profumo del piombo riferiremo un’altra volta.

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