Offesa a Livatino, “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia

Il danneggiamento, ad Agrigento, della stele posta in ricordo del giovane giudice ucciso in un agguato mafioso nel 1990, diventa l'occasione per dare spazio all'altra Sicilia che resta fedele al messaggio "di fame e sete di giustizia" testimoniata con la vita da Rosario Livatino, per il quale la Chiesa ha ultimato la prima fase della beatificazione come cristiano fedele al Vangelo

Rosario Livatino venne ucciso il 21 settembre 1990. A bordo della sua auto, stava percorrendo il tratto di strada che da Canicattì, suo paese natale, conduceva fino ad Agrigento. Come ogni giorno, aveva salutato i suoi genitori per recarsi il tribunale. I suoi killer lo attendevano, in agguato, lungo la strada. Livatino ebbe appena il tempo di gridare:«Che cosa vi ho fatto?». Poi la fuga per i campi, inseguito dai killer che non gli hanno lasciato scampo. L’auto venne ritrovata sulla strada, il corpo senza vita poco distante. Rosario Livatino stava indagando su alcune cosche del suo territorio, le indagini avevano toccato nomi che contano.

Dopo la sua morte, l’arcivescovo del tempo, monsignor Carmelo Ferraro, incaricò Ida Abate, che fu insegnante di Livatino, di raccogliere del materiale su di lui. Il 19 settembre 2011, l’arcivescovo Franco Montenegro (oggi cardinale) firmò il decreto per l’avvio della causa diocesana di beatificazione, oggi quasi conclusa.

I suoi genitori fecero erigere una stele in sua memoria, alla periferia di Agrigento. Un busto si trova nel tribunale di Agrigento. Il 18 luglio scorso, ignoti hanno danneggiato la stele, colpendola a colpi di martello. Un gesto emblematico, di rabbia o di rancore, giunto alla vigilia di quel 19 luglio in cui è stato ricordato il 25° anniversario della morte di Paolo Borsellino. E appena una settimana prima, a Palermo, era stata decapitata la testa del busto di Giovanni Falcone, davanti alla scuola a lui intitolata, nel quartiere Zen.

Cosa accade in Sicilia? C’è una Sicilia che reagisce, come nei giorni difficili del ’92, quando la rabbia dei siciliani onesti fece sentire la sua voce anche contro le istituzioni. Quelle grida «Fuori la mafia dalla chiesa!», rivolta anche contro gli uomini dello Stato, nel giorno del funerale, risuonano ancora oggi. C’è la Sicilia di Libera, dei giovani capaci di indignarsi per il malaffare. Ma c’è ancora la mafia, che oggi veste i panni degli affari e degli appalti eccellenti, che punta in alto, ai soldi, senza più usare le armi ed il sangue. Qualcosa è cambiato, anche in questo. Ciò che accade, con gli atti vandalici ai danni dei monumenti che ricordano, in Sicilia, i martiri per la giustizia, testimonia che c’è ancora, anche se marginale, una Sicilia che vive ancora la “mafiosità” come un marchio indelebile.

La reazione dell’altra Sicilia non si è fatta attendere. Si leva la voce dei sindaci e delle istituzioni. Si leva la voce di “Libera Agrigento”, che comprende i gruppi “Vincenzo Mulè” di Raffadali e “Graziella campagna” di Santa Elisabetta: «Condanniamo il vile gesto compiuto contro la lapide di Rosario Livatino – scrivono –. Mortificare i simboli della memoria denota il disprezzo per il sacrificio di chi ha dato la vita per la nostra libertà ma, nel contempo, anche e soprattutto per la debolezza di chi si rende autore di gesti così bassi».

Il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente della Caritas italiana, ha affermato: «Come cristiani e come cittadini ci sentiamo offesi e addolorati per il gesto compiuto a danno della stele che ricorda il sacrificio di sangue che il Giudice Livatino ha pagato nel 1990. Alla barbarie della sua morte si è voluta aggiungere anche quella dell’oltraggio alla sua memoria, per tentare di eliminare ogni traccia che ricordasse un uomo che ha vissuto per la giustizia e per essa ha dato la vita. Dietro il vile atto di infrangere il monumento al giudice di Canicattì si nasconde quella logica mafiosa che tanto male ha fatto al nostro territorio. Siamo consapevoli che ci sono ancora persone e sistemi di potere che lavorano per distruggere il bene, per danneggiare la dignità di tanti cittadini onesti e per impedire qualsiasi sviluppo della Sicilia. A queste persone ripetiamo l’appello di Giovanni Paolo II:Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio”. A queste persone vogliamo dire con chiarezza che il loro modo di ragionare e di fare è fuori dal Vangelo e, pertanto, loro stessi sono fuori dalla chiesa; a queste persone vorremmo giungesse il grido di dolore di tanti genitori che – come quelli di Livatino – hanno dovuto piangere i loro figli innocenti, nella speranza che quelle lacrime li convincessero a fermarsi. Basta! Basta con i reati contro la giustizia! Basta con il sangue innocente! Basta con la cattiveria usata nei confronti di chi vuole lavorare onestamente! Basta!».

Quando venne in Sicilia, Giovanni Paolo II, incontrò i genitori di Livatino. Ora sono morti entrambi, Rosalia Corbo nel 2003 e Vincenzo Livatino, nel 2010. Il suo grido nella Valle dei Templi risuona ancora. E lo scorso anno, uno degli assassini (tutti condannati all’argastolo), Gaetano Puzzangaro chiese “perdono” per quell’omicidio. La madre di Livatino, anni prima, dopo il processo, aveva perdonato «perché Rosario avrebbe perdonato», aveva spiegato.

Una donna ferma e coraggiosa che ha vissuto gli ultimi anni con la morte nel cuore. Ma non si è mai arresa. L’esempio del figlio ha guidato i suoi passi negli anni successivi, segnati dai tanti processi e dalle tante condanne. Come lei, anche Montenegro guarda avanti, con la memoria e l’esempio del “giudice ragazzino” nel cuore: «Con la forza umile che ci viene dal giudice Livatino lancio un appello a tutti: cerchiamo di essere noi un monumento vivente alla giustizia, al bene, al rispetto delle regole, all’amore. Come Livatino, nel posto in cui ci troviamo e nel lavoro che svolgiamo, impegniamoci ad essere persone giuste, corrette, integre; evitiamo ogni forma di compromesso con la mentalità mafiosa, ogni forma di omertà, di connivenza e di complicità con chi vuole dominare con il potere e l’ingiustizia. L’esempio che ci ha lasciato Livatino ci porti ad essere “affamati e assetati di giustizia”».

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