Offenbach fra ironia e pianto

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“Les Contes d’Hoffmann”. Opéra fantastique in un prologo, tre atti e un epilogo. Roma, Teatro dell’Opera. Quanto si diverte Offenbach, l'”operettista”. Mozart, il Rossini del Comte Ory, Verdi, Meyerbeer, Wagner: li cita tutti, li coinvolge. Con ironia spumeggiante (e intelligente), ritmi e duetti suadenti, un’orchestra vaporosa, ma che sa pure colpire d’ascia. Eppure siamo nel regno della fantasia, dove il gobbo Hoffmann, alla perpetua ricerca del vero amore in una storia neogotica – le tre donne irraggiungibili – dovrà consolarsi del freddo abbraccio della Musa (la poesia), cosciente, dopo il “ballo della vita”, che “l’amore rende grandi, e ancora di più il pianto”. Non solo ironia sulle mode e gli pseudo valori borghesi, dunque, ma la malinconia per un correre ed un divertirsi che, al di là dello Scena da “I racconti scintillio dei cori e delle canzoni, sbuca con la domanda: e poi? Insomma, Offenbach – chi l’avrebbe detto – fa anche pensare. Fra onirico, surreale e visioni felliniane, l’allestimento romano (scene e costumi suggestivi di Michael Scott) ha puntato all’attualizzazione della vicenda, grazie alla regia “cinematografica” di Gian Carlo Del Monaco. Renato Palumbo ha trascinato l’orchestra con sonorità flautate e quasi-tragiche di forte senso teatrale, assecondato da un cast notevole. Fra gli altri, gli acrobatici Desiré Rancatore (Olympia) e Aquiles Machado (Hoffmann), mentre Ruggero Raimondi si impone ormai con la sua sola presenza scenica e vocale. Buono il coro. Applausi meritati per uno spettacolo da ripresentare. Standing ovation per Savallisch È successo a Santa Cecilia, e non solo per il commosso affetto ad un direttore di 79 anni, puntuale a Roma da quaranta. Savallisch, osannato dall’orchestra, compie quello che gli interpreti maturi sanno fare: estrarre la personalità autentica di questa, renderla un corpo solo, con il proprio suono (il “cantabile” ceciliano), nella gioia, anche fisica, del far musica insieme. Programma romantico: il Mendelsshon del Concerto in mi min. per violino e orchestra, solista Hilary Hahn, americana, 21 anni, fisico da ragazzina, tecnica da vendere; e soprattutto ricchezza sentimentale in un brano che è “felice”, certo,ma tutt’altro che facile. E poi Schubert, la Decima Sinfonia “la grande”. Nell’interpretazione robusta di Savallisch, sembra di sfogliare il diario del compositore: amore alla natura, alla vita, alle danze popolari e ai corali chiesastici: con il dono di una melodia spontanea che germina da infinite cellule musicali, ininterrotta. Esistono zone d’ombra, ben evidenziate dal direttore: la lunga pausa nell’Andante, dopo la danza pungente dell’oboe spia sospensioni quasi tragiche: il dolore, su cui Schubert compie poi una virata verso la luminosità finale. E con lui, il pubblico, dietro al gesto eloquente di un grande Savallisch.

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