«Occorre tornare all’economia civile per sanare le storture del capitalismo»
Pubblichiamo quest’intervista a Stefano Zamagni per gentile concessione de L’Eco di Bergamo.
C’è bisogno di economia civile, per andare a recuperare il senso originario dell’attività economica rivolta al bene comune e per sanare le distorsioni create dall’ideologia del capitalismo, distorsioni che sono ormai sotto gli occhi di tutti, dalle diseguaglianze che si acuiscono sempre di più alla devastazione delle risorse della Terra. Ne parliamo con il professor Stefano Zamagni, docente di Economia civile all’Università di Bologna e vice direttore della Johns Hopkins University SAIS Europe. Zamagni parteciperà la mattina di sabato 15 aprile al dibattito promosso dal Movimento dei Focolari «Fare economia, far contare le persone».
Professore, il comunismo non crea ricchezza, il capitalismo sì. Quindi il capitalismo ha vinto?
«Occorre capire bene il significato dei termini. Ha vinto l’economia di mercato di tipo capitalistico. L’economia di mercato nasce tre secoli prima del capitalismo: è il frutto maturo del pensiero francescano. A loro si devono i Monti di Pietà e altro ancora, il tutto finalizzato al bene comune. Nel primo Settecento l’economia di mercato si trasforma in capitalismo, e il cambiamento riguarda due punti qualificanti: il fine diventa il bene totale, che è molto diverso dal bene comune, e il secondo concerne l’assunto antropologico: ogni soggetto opera nell’arena del mercato per perseguire il proprio interesse, il self interest come dicono gli inglesi, idea da cui si trae il cosiddetto homo oeconomicus. La differenza è radicale: l’economia di mercato francescana persegue il bene mio insieme al tuo, in omaggio al principio di fraternità; il capitalismo crea invece una separazione fra l’interesse mio e l’interesse tuo. Il comunismo è stato un tentativo di correggere il capitalismo, ma nella direzione sbagliata, tanto che oggi più nessuno lo invoca: in Cina non abbiamo un’economia comunista, abbiamo un’economia di mercato, e che mercato!».
L’acuirsi delle diseguaglianze e il depauperamento delle risorse della Terra sono fra le distorsioni più evidenti del capitalismo. Come si è arrivati a questi eccessi?
«A partire dagli anni Settanta, si sono verificati due fenomeni non collegati fra loro ma che si sono unificati negli effetti: la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale, e poi la quarta, con internet e il digitale, che hanno permesso alla globalizzazione di esplodere. Per oltre vent’anni, questi due fenomeni hanno ubriacato la mente di tutti: economisti, politici, gente comune. Ci siamo trovati in mano strumenti di una potenza straordinaria, tanto che si diceva: abbiamo realizzato il paradiso terrestre in terra. La conseguenza è stata l’affermazione dell’ideologia del capitalismo, che significa: lasciamo fare, togliamo allo Stato i temi della giustizia economica e della crescita e ce ne sarà per tutti».
Non è andata esattamente così.
«Negli Stati Uniti si diceva: a rising tide lifts all the boats, una marea che sale solleva tutte le barche. Il primo ad avere scritto a chiare lettere che questa è una grande mistificazione è stato papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 2014. Solo le barche grosse salgono insieme alla marea, le altre restano impigliate nel fango del fondale e vengono sommerse. Oggi più nessuno invoca il liberismo. Quel modello è finito e gli economisti importanti intellettualmente onesti che lo invocavano, oggi lo ammettono. Altri non lo riconoscono, perché c’è un problema di fondo: scindere il liberalismo, che è una teoria di filosofia politica, dal liberismo, che è invece una teoria economica. Si può essere liberali senza essere liberisti, come ad esempio fu il nostro Luigi Einaudi».
L’economia civile come si inserisce in questo contesto: può essere una terza via percorribile?
«Il paradigma dell’economia civile nasce in Italia con la prima cattedra a Napoli nel 1753, nell’alveo della matrice culturale cattolica. Antonio Genovesi, il primo cattedratico di economia, anticipa Adam Smith che insegnava filosofia morale in Scozia, in un contesto culturale protestante. Il paradigma dell’economia politica finì per risultare dominante, ma oggi non solo in Italia, in tutto il mondo, si sta tornando alle origini. Il paradigma dell’economia politica ha perseguito solo il fine della crescita e non è stato capace di anticipare la grande crisi finanziaria né di ridurre le diseguaglianze economiche né di salvaguardare l’ambiente né di risolvere il paradosso della felicità. L’Economia di Francesco, con la lettera del papa ai giovani del 1° maggio 2019, è esattamente il recupero dell’economia civile, il che significa tornare alla categoria del bene comune, alla fraternità e al principio per cui non si possono separare economia ed etica. Questo è fondamentale: non posso separare la ricchezza dal modo in cui la produco. Se produco ricchezza in modo immorale, non ci sarà nulla che restituirà dignità e moralità a ciò che ho violato. Potrò redistribuire soldi, ma non la dignità, che non può essere comprata».
È una rivoluzione.
«No, non è una rivoluzione. Il comunismo è stato una rivoluzione perché voleva abbattere un sistema. Qui non si tratta di abbattere: è evidente che il capitalismo ha raggiunto risultati importanti, pensiamo alla tecnologia o alle scienze mediche. Ci sono cose buone che vanno conservate. Ma occorre tornare alle origini e recuperare il fine ultimo. L’approccio da seguire è evolutivo, non rivoluzionario».
Cosa dice l’economia civile rispetto alla gestione di un’azienda?
«L’organizzazione del lavoro deve essere tale da non disgiungere il lavoro giusto dal lavoro decente che è quello che non umilia la personalità del lavoratore consentendogli di esprimere il proprio potenziale. Ne parlò già papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem Exercens del 1981. Non basta la giusta mercede. Le donne sono umiliate non tanto perché guadagnano meno soldi degli uomini, ma soprattutto perché sono trattate in modo che non possano emergere e facciano fatica a tenere in armonia lavoro e famiglia. Sono sotto schiaffo dell’azienda con il ricatto: non fate figli e potrete fare carriera o se fate figli, vi accontentate di non fare carriera. In migliaia e migliaia di interviste fatte, non ho mai trovato una donna che abbia detto: non voglio figli. Dicono piuttosto: non mi decido a mettere al mondo figli a causa del lavoro. Alcuni filoni del movimento femminista, invece, invocando solo la priorità retributiva sposano in realtà il principio capitalista secondo cui tutto si può comprare».
E rispetto alla distribuzione degli utili?
«Il problema non è tanto la distribuzione degli utili ma la partecipazione al governo dell’azienda. Se ti do soldi, ti compro e non protesti più. La vera partecipazione è avere i rappresentanti dei lavoratori nei consigli d’amministrazione così che possono dire la loro sulle scelte strategiche. Le altre sono scorciatoie che non servono a molto».
E rispetto al funzionamento di un Paese, cosa dice l’economia civile?
«Che l’impianto attuale della macchina economica è sbagliato. Occorre lasciare spazio alla produzione e funzione di quattro beni: beni pubblici, beni privati, beni comuni e beni relazionali. Di tutte e quattro le categorie di beni abbiamo bisogno per assicurare lo sviluppo umano integrale. L’ambiente, ad esempio, è un bene comune».
Come si può favorire la diffusione dell’economia civile?
«Con la cultura. A Loppiano, ospitata dai Focolarini, c’è la Sec, la Scuola di economia civile, che coinvolge venti professori universitari che ogni anno aumentano. Nelle università vanno introdotte cattedre di economia civile: questo darebbe un segnale importante ai giovani. Anche a livello istituzionale ci si deve muovere in questa direzione: qualcosa sta avvenendo, anche in Europa».
L’Economia di Francesco quali risultati sta producendo?
«In 98 Paesi del mondo, migliaia di giovani studiosi sotto i 35 anni stanno portando avanti progetti di ricerca indirizzati a creare una base di conoscenza sull’economia civile. In alcuni Paesi ci sono già Università che hanno cattedre dedicate all’economia civile».