Occhio al territorio

Articolo
Dal rapporto sull’integrazione presentato dal Cnel nei giorni scorsi emerge un modello italiano che si realizza nel piccolo, dove emerge il valore delle relazioni sociali. Cosa ci dice questo?

"Sì, è proprio così. Lo aveva dimostrato anche uno studio realizzato un anno fa da noi in collaborazione con l’ambasciata tedesca. Da un confronto fra l’emigrazione in Italia e in Germania era emerso che mentre l’immigrazione tedesca è legata a quattro, cinque etnie e si è concentrata attorno alle industrie presso grossi agglomerati urbani, nel nostro Paese, al di là di alcune situazioni di concentrazione, è distribuita in diversi comuni medio-piccoli dove si ha modo di entrare in relazione, di costruire rapporti che facilitano, se ben curati, il cammino di integrazione fra popolazioni diverse. Questo è importante anche per l’aspetto della sicurezza divenuto ormai uno spettro".

 

L’emergenza sicurezza, appunto. Sembra che ci si debba dividere tra buonisti o cattivi. Non c’è una terza via?

"I dati diramati dalle autorità competenti dicono di una contrazione dei reati e nello stesso tempo vediamo che viene posto in maniera forte l’accento sulle situazioni criminose (che pur vanno combattute) al punto tale da far vedere nell’insieme il fenomeno migratorio come portatore di delinquenza. Il linguaggio utilizzato, l’approccio al problema, poi, suscitano nell’immaginario della popolazione reazioni talora sconsiderate di fronte ad un fenomeno che nella sua stragrande maggioranza dice tutt’altro anche se ha in sé, come in ogni società, espressioni che certamente vanno governate con un’azione capace di contenere e ridurre forme di violenza e criminalità. La conoscenza di come stanno le cose nei contesti medio-piccoli fa smontare tante precomprensioni".

 

Potrebbe incidere sul processo di integrazione fare leva sugli immigrati regolari?

"Da almeno trent’anni stiamo sottolineando come in Italia sia opportuno puntare sui circa quattro milioni di immigrati già regolari o in fase di regolarizzazione. Valorizzare queste persone che già hanno una casa, operano all’interno del nostro contesto lavorativo, hanno in atto una loro imprenditorialità (basti pensare che contribuiscono al 9,2 per cento della ricchezza nazionale), potrebbe costituire uno zoccolo duro, molto ampio, su cui costruire in maniera più efficace l’integrazione. Permetterebbe anche di avvalerci di una loro partecipazione nel contrasto a quelle forme di criminalità che hanno bisogno di essere represse".

 

Lei ha affermato che lavorare con gli irregolari per garantire i diritti fondamentali è una forma di prevenzione dei reati. In che senso?

"L’accusa che solitamente viene posta nei confronti delle realtà che prendono in carico anche queste presenze irregolari è quella di favorire un’immigrazione clandestina. Non viene percepito come attraverso questo lavoro, invece, sia possibile arrivare nel tempo a trovare percorsi che portano queste persone ad entrare nella regolarità o a recuperarla se per qualche tempo l’hanno perduta. Secondo noi, più è ramificata la capacità di intercettazione, di ascolto, di presa in carico anche di queste presenze non regolari, più i territori diventano sicuri. Per questo siamo per la moltiplicazione di punti di riferimento, di ascolto, di ricerca del lavoro, della casa, di attenzione a quelle zone in cui queste persone vivono in maniera disumana. Crediamo che moltiplicare i servizi e le opportunità laddove c’è una loro maggiore concentrazione contribuisca in maniera forte tanto alla loro quanto alla nostra sicurezza".

 

Intanto assistiamo alle rivolte a Lampedusa, Roma, Milano. Quale segnale dobbiamo cogliere? E a che prospettive andiamo incontro se si allunga la permanenza in questi centri?

"Alcune scelte fatte riguardo ai centri di identificazione evidenziano quasi un atteggiamento di indesiderabilità nei confronti di queste presenze che possono creare nel tempo situazioni di tensione, che poi sfociano anche in forme di ribellione. Quello che serve è la presa in carico di queste persone, soprattutto di quelle che scappano da territori di estrema povertà e di grande conflittualità. Più è contenuta nel tempo la capacità di lettura della loro situazione e prima si arriva a un riconoscimento o meno del loro status giuridico, meglio è per tutti".

 

Veniamo alla possibilità per i medici di denunciare i clandestini. Non è ancora legge, ma sembra abbia già prodotto degli effetti. Vi risulta?

"Sì, non appena questa proposta era stata accennata, è stata rilevata una contrazione del numero delle persone che si sono rivolte agli studi medici, proprio per la paura di essere denunciati. Ci auguriamo che non si arrivi a tanto, ma piuttosto si capisca che la cura della salute di tutti non può che tornare a vantaggio di tutti. Occorre salvaguardare sia questi immigrati che l’intera cittadinanza italiana da eventuali malattie che potrebbero propagarsi, ed anche evitare che si creino delle alternative di cura che sappiamo quali conseguenze disastrose potrebbero produrre".

 

La questione delle ronde. Dovrebbero essere apolitiche, gestite dai prefetti, composte in gran parte da ex agenti di polizia; dovrebbero insomma agire da deterrente alla giustizia fai da te. Aspettiamo di vederle in azione?

"Noi riteniamo opportuno che chi è preposto alla vigilanza, alla prevenzione, al contenimento di comportamenti non corretti vada rafforzato e messo nella condizione di sviluppare il proprio servizio a tutta la cittadinanza, incrementando e non contraendo le risorse necessarie. Allora inventiamo cose nuove o rafforziamo quello che esiste già? In secondo luogo pensiamo che la partecipazione del cittadino, la corresponsabilità, l’attenzione al proprio territorio, alla persona nuova che è arrivata, all’anziano, al diversamente abile, all’immigrato, dovrebbero stare a cuore allo Stato ed anche alla comunità ecclesiale. Un tessuto sociale solidale è la direzione su cui puntare, la migliore risorsa per la sicurezza. Un’altra risorsa da valorizzare sono i giovani in servizio civile. E qui ci troviamo di fronte ad una contraddizione: vogliamo creare cittadinanza, corresponsabilità e poi andiamo a ridurre tali opportunità per i giovani? È su questi fronti che vanno investite le forze. Ed è lì che anche la Chiesa può offrire una bella complementarietà con l’esperienza delle sue associazioni, dei suoi gruppi, da quelli già organizzati a quelli più spontanei".
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