Obiezione di coscienza: diritto o “concessione”?

Una controversa delibera della Regione Lazio obbliga gli operatori obiettori a prescrivere la pillola del giorno dopo. C'è il sospetto che si vogliano nascondere inadempienze organizzative. E le donne sono sempre lasciate sole. Una riflessione
Embrione

Ciclicamente in Italia ci si ritrova a riflettere e discutere sulle problematiche inerenti la legge 194 e il ricorso di alcune donne all’aborto. In verità si tratta sempre di affermazioni di segno opposto che suonano come dei principi indiscutibili: c’è chi proclama l’assoluta autodeterminazione della donna da assicurare senza alcun tipo di riflessioni o ricerca di eventuali alternative all’interruzione di gravidanza, e chi, in nome della difesa della vita, ribadisce la personalità dell’embrione e la necessità della sua accoglienza.

Si tratta di questioni gravi e vitali e così eticamente sensibili che è facile toccare nervi scoperti: difficilmente infatti si riesce ad arrivare ad una discussione proficua in cui ci si ascolti e si comunichi tra persone che garantiscano un mutuo riconoscimento di onestà e di rispettabilità reciproca.

Legge 194 autodeterminazione e libertà di coscienza
In questa annosa e pur sempre drammatica discussione, fin dalla sua approvazione il 12 maggio del 1978, la legge 194, che all’articolo 1 dichiara che “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, ha sancito il riconoscimento e garantito la possibilità di ricorrere all’interruzione di gravidanza nei primi novanta giorni di gestazione, per la donna che andasse incontro ad  “un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica” (art. 4).

Viene però riconosciuta anche l'eventuale sensibilità del professionista che, considerando l’aborto contrario ai propri principi morali, decidesse di non prestare la sua opera per eseguire tale atto: all’articolo 9 si legge infatti “il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza”.

Il caso della Regione Lazio
Questa introduzione storica è necessaria per inquadrare adeguatamente l’argomento: recentemente Il presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha firmato, come commissario “ad acta”, un decreto (il n. U00152/2014) per la “ridefinizione e riordino delle funzioni e delle attività dei consultori familiari regionali”. In questo decreto, dopo una serie di visto, approvato, sentito ecc.,nell’Allegato, 1- Linee di indirizzo regionali per le attività dei consultori familiari, si afferma che: "In merito all'esercizio dell'obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, che dati recenti pongono a 69,3 per cento in Italia… si ribadisce come questa (l’obiezione di coscienza, ndr) riguardi l'attività degli operatori impegnati esclusivamente nel trattamento dell'interruzione volontaria di gravidanza”.

Tale affermazione, che ad un primo sguardo può sembrare corretta, nasconde in sé alcune semplificazioni, dirette unicamente alla discutibile affermazione di un obbligo, per il personale operante nel consultorio familiare che (è affermato sempre nel decreto) nella sua attività non è “coinvolto direttamente nella effettuazione di tale pratica, bensì solo in attività di attestazione dello stato di gravidanza e certificazione attestante la richiesta inoltrata dalla donna di effettuare IVG (interruzione volontaria di gravidanza, ndr). Per analogo motivo, il personale operante nel consultorio è tenuto alla prescrizione di contraccettivi ormonali, sia ordinaria che in fase post-coitale, nonché all'applicazione di sistemi contraccettivi meccanici, vedi I.U.D. (lntra Uterine Devices)”.

Chiarimenti necessari
In queste poche righe, però, si mettono sotto le stessa fattispecie di attività routinaria del consultorio, prestazioni diverse, che presentano problemi etici diversi, alcuni dei quali possono essere considerati una partecipazione diretta all’interruzione di gravidanza e quindi essere considerati, a ragione, materia di obiezione:

1.     Riguardo la fase iniziale dell’iter procedurale verso l’aborto, c’è prima di tutto il primo colloquio nel quale si accoglie la donna e si attesta con certezza la gravidanza e l’epoca della gestazione; attraverso un ascolto attento si cerca di capire le ragioni che conducono la donna alla decisione di abortire e di vedere insieme a lei ed al marito, laddove ci fosse, soluzioni e strategie per rimuovere gli ostacoli al proseguimento della gravidanza stessa. La legge 194, infatti, ha inserito il consultorio familiare nell’iter verso l’IVG come servizio cui la donna e la coppia possono rivolgersi per "far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza”.

2.     Diverso invece è il rilascio del certificato di urgenza che consente alla donna di accedere direttamente all’aborto senza neanche aspettare la settimana (prevista dalla 194) per l’eventuale ripensamento. Questa certificazione è necessaria alla donna per abortire e quindi deve essere considerata tra le procedure che sono direttamente volte all’effettuazione dell’Ivg e, quindi, essere materia di obiezione di coscienza.

3.     Quando si parla di contraccezione ordinaria o post coitale e di IUD (la cosiddetta spirale) non si parla di cose omogenee: se per la contraccezione ordinaria possiamo ammettere come azione prevalente quella contraccettiva vera e propria, attraverso il blocco dell’ovulazione; la contraccezione cosiddetta “di emergenza” (pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo) ha un meccanismo d’azione ancora dubbio, in quanto è molto probabile la sua azione antinidatoria, che interviene cioè dopo il concepimento, impedendo l’annidamento dell’embrione e configurando così la possibilità di microaborti. Per lo IUD, invece, non ci sono dubbi: la spirale, infatti, ha un’azione prevalente antinidatoria, e quindi microabortiva.

Le giustificazioni addotte dalla Regione Lazio a questo discutibile decreto sono relative all’alta incidenza di personale obiettore nei consultori familiari, che nel Lazio pare superi l’80 per cento degli operatori (sarebbe interessante chiedersi il perché), mettendo a volte a rischio il possibile accesso delle donne all’iter abortivo (soprattutto quando si configuri la procedura d’urgenza).

Colpire l’obiezione per nascondere le mancanze politiche
Il dato, pure indiscutibile, è però legato ad una non ottimale organizzazione di questi preziosissimi servizi che sono i consultori: la legge che li istituisce (la n. 405 del 1975) infatti, prevederebbe un consultorio ogni 20 mila  abitanti e ciò per consentire la realizzazione della “mission” di questi luoghi di promozione del benessere della donna, delle coppie e dei bambini. Nel Lazio ce ne sono la metà di quelli previsti, e questa carenza comporta l’impossibilità di intervenire con le attività di prevenzione dell’aborto, di educazione all’affettività e alla sessualità, di sostegno alla donna e alle coppie in gravidanza e nel puerperio, che sarebbero il vero obiettivo da perseguire. Nonostante questo, il personale dei consultori lavora con passione ed impegno cercando di far fruttare nel miglior modo possibile le pur esigue risorse messe a disposizione e cercando di intervenire sulle emergenze, come le recenti attività contro la violenza di genere ed il femminicidio dimostrano.

L’ostracizzazione di alcuni operatori o, peggio ancora, l’obbligo di effettuare prestazioni contrarie alla propria coscienza non può essere la strada per ottimizzare questi servizi.

Creare dei capri espiatori, mettendo il personale obiettore contro le donne che hanno deciso di interrompere le loro gravidanze è tutto sommato facile, una scorciatoia per i politici, un tentativo di coprire le proprie responsabilità ed inefficienze puntando il dito su chi non si tira indietro nelle quotidiane ed impegnative azioni di prevenzione e promozione del benessere della persona, ma non vuole essere obbligato a compiere azioni contrarie alla propria coscienza.

Urgenza di un vero dialogo
A distanza di 35 anni dall’introduzione della legge sull’aborto e di 40 dalla legge sui consultori familiari sarebbe importante trovare la disponibilità e lo spazio per fermarsi a riflettere, uscendo da impostazioni ideologiche, e cercando di ripartire dal benessere e dal rispetto di ogni persona coinvolta, per mettere in atto strategie efficaci di contrasto all’aborto che, come non ci stancheremo mai di ripetere, non è mai una vittoria, ma è una sconfitta per tutta la società ed ha, oltre al figlio che non vedrà mai la luce, anche un’altra vittima: la donna che, ipocritamente in nome dell’autodeterminazione, viene costantemente lasciata sola.

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