Obama. Presidente senza maggioranza
«L'onda di rabbia fa trionfare i repubblicani», «La negatività conquista il Senato»: non ha mezzi termini il New York Times nello spiegare il perché del trionfo del partito Repubblicano nelle elezioni americane di metà mandato, in cui – opinione comune tra tutti gli editorialisti – a consentire il successo è stato più il calo di popolarità del presidente Obama che reali meriti dei suoi avversari. Secondo l'editoriale del quotidiano neyorkese, infatti, «i repubblicani vorrebbero far credere di aver vinto queste elezioni con un programma serio di creazione di posti di lavoro, riforma fiscale e tagli alla spesa: in realtà non hanno fatto nulla di tutto ciò». La campagna elettorale, più che propositiva, sarebbe infatti stata «intrinsecamente negativa: bloccare la riforma della sanità, respingere la nuova legislazione bancaria, fermare i progetti per tagliare le emissioni di gas serra, la riforma dell'immigrazione e gli investimenti nell'istruzione». Una campagna basata dunque sulla pura volontà di distruggere quanto fatto dal presidente in carica, che ha contribuito a darne un'immagine «debole e inefficace».
Altra spiegazione viene fornita da Philip Rucker e Robert Costa sul Washington Post, in un articolo significativamente titolato «Com'è che il partito Repubblicano ce l'ha fatta». I due puntano il dito contro la maniera in cui la campagna elettorale è stata finanziata, in quanto «mentre i repubblicani si sono mossi per risolvere i problemi dei loro candidati, i democratici erano impegnati a superare dissidi interni», primo tra tutti quello tra i candidati e «una Casa Bianca scettica sulla loro leadership, protettiva verso il presidente e i suoi finanziatori. Così il dissidio tra le due parti per una somma di denaro relativamente piccola è degenerata in scontro aperto». E se, citando i detti popolari, senza i soldi non si dicono neanche le messe, tanto meno si fa campagna elettorale. Anche se, ammettono i due, «non è stata solo questione di soldi: tra i democratici c'era un forte risentimento su come l'impopolare Obama li stesse, di fatto, affossando», tanto che molti candidati non l'hanno voluto al loro fianco nella campagna. E così per i repubblicani è stato facile «non fare errori, ma ridurre tutto a Obama, Obama, Obama».
Il Los Angeles Times, tuttavia, invita a moderare gli entusiasmi. Secondo David Lauter il trionfo del partito repubblicano sarebbe «smorzato da gravi problemi in vista delle presidenziali del 2016», innanzitutto perché «il terzo degli Stati che ha rinnovato i seggi in Senato quest'anno è saldamente repubblicano»: una vittoria facile, insomma, per quanto anche diversi seggi considerati in bilico siano andati a destra. Il più grosso problema per i repubblicani rimane però «la percezione salda nell'opinione pubblica che i questi non si curino molto delle sfide affrontate da chi non è bianco e ricco: e questo è un handicap pesante in un Paese in cui l'elettorato è sempre più non bianco e sospettoso verso i ricchi uomini d'affari». Detta in parole povere: vincere le elezioni di midterm è stato facile, vincere le presidenziali tra due anni sarà tutta un'altra storia.
Dal nostro lato dell'Oceano, infine, costituisce un'interessante lettura l'articolo del New York Times «L'Europa guarda oltre Obama»: secondo Jonathan Freedland, infatti, il calo di popolarità dell'attuale presidente non può essere ridotto solo a questioni interne, ma anche alle aspettative eccessivamente alte che il resto del mondo aveva su di lui in quanto a politica estera, scontratesi recentemente con la triste realtà in Medio Oriente e Ucraina. «In altre parole – conclude l'editorialista – non sono gli americani che hanno dato il loro verdetto su Obama. Anche il resto del mondo ha tristemente concluso, seppur a malincuore, che il suo potere sta svanendo».