Obama la novità alla Casa Bianca
Innazitutto un’annotazione che, di primo acchito, potrebbe apparire alquanto frivola. Mi riferisco ad un passaggio del discorso pronunciato dal prossimo presidente degli Stati Uniti nella notte della sua vittoria. Le lacrime, le grida, i salti in cui è esplosa la folla esilarante contrastavano con il sorriso privo di euforia di Barack Obama. Era consapevole delle responsabilità che lo attendono in un periodo tremendamente difficile per gli Stati Uniti. Nella notte della sua vittoria, ha pronunciato parole serie e sagge, trasformandole in un discorso politico elevato. Ma ciò che ha colpito la mia atten- zione è una frase che ha rivolto alle due figlie: Avete meritato un nuovo cucciolo che verrà con noi nella nuova Casa Bianca. L’indomani l’intero Paese parlava di questo cucciolo, e altrettanto hanno fatto i giornalisti con Obama durante il suo primo incontro con la stampa. Il neo eletto ha spiegato: Dobbiamo riconciliare due esigenze. La prima è che Malia (una delle figlie, ndr) è allergica e quindi il cucciolo deve essere ipoallergico. D’altra parte, la nostra preferenza sarebbe per un cucciolo di un canile, ma, naturalmente, un sacco di questi cuccioli sono bastardi come me. Contemperare queste due esigenze è dunque una questione pressante per la famiglia Obama in questo momento. Più che la netta vittoria di Obama contro il repubblicano McCain, sono state le parole riguardanti il cucciolo a preoccupare i conservatori. Lo ha ammesso il fine analista, di fede neo-conservatrice, Bill Kristol in un editoriale sul New York Times. In un Paese dove gli animali domestici sono adorati, se non a volte, idolatrati, Kristol ha fatto notare come i commenti di Obama sul cucciolo abbiano permesso una forte empatia con gli amanti di cani negli Stati Uniti. Obama si è identificato con ogni famiglia che ha fatto l’esperienza di capire quale cucciolo adottare. Ha toccato il cuore di molti genitori con la storia dell’allergia della figlia. Ha mostrato compassione indicando una preferenza per un cucciolo adottato da un canile. E si è mostrato capace di umore nero e di auto-ironia quando ha parlato dei cuccioli bastardi. Non male, ha commentato Bristol. Potrebbero essere quattro o otto anni difficili per i conservatori. Ciò che qui è centrale non è ovviamente il nuovo cucciolo che la famiglia presidenziale adotterà. Ciò che è rilevante è il momento di empatia che Obama ha dimostrato con la storiella del cane. Il fatto è (e qui abbandono l’apparente frivolezza della citazione scelta), che in un tempo eccezionale di crisi, è bene poter contare su un leader con spiccate doti. Competenza e intelligenza sono fondamentali, ma non sufficienti. Per poter guidare un’intera nazione oltre la crisi, è necessario saper combinare competenza con empatia. Durante i due anni di campagna elettorale, condotta con grande disciplina e concentrazione, Obama non aveva rivelato particolari doti di simpatia. È per questo che commentatori e avversari hanno provato a dipingerlo come elitario, distaccato, troppo intellettuale e remoto dalla gente qualunque. I suoi discorsi sono pensati e scritti in maniera impeccabile e sono un grande esercizio di retorica. Ma quella capacità umana di essere accanto alla gente non aveva fatto ancora capolino nella personalità di Obama. Per questo i conservatori si sono preoccupati per quell’apparente innocua e casuale frase sul cucciolo per le figlie. Se oltre all’intelligenza, Obama ha anche un cuore, allora per loro incomincia un lungo periodo di vacche magre. Ma sicuramente la politica mondiale oggi ha bisogno di saper ritrovare sia cuore che intelligenza. È anche questo il messaggio che giunge da queste elezioni presidenziali. Obama ha dimostrato di essere un candidato speciale, ma a riscattarsi è stato anche il popolo degli Stati Uniti, di per sé moderato e conservatore, che ha trovato il coraggio e la voglia di cambiare pagina. Il giornalista italiano e amico Empedocle Maffia, recentemente scomparso, era un profondo conoscitore degli Stati Uniti. Durante una delle nostre lunghe conversazioni nella sua casa a Washington, mi aveva detto ancor prima che Obama si lanciasse alla presidenza: Se Obama si candida, ce la potrebbe fare. Nei momenti cruciali della loro storia, gli statunitensi hanno sempre trovato il coraggio di scegliere il cambiamento e l’innovazione . Maffia ha dimostrato di aver buon fiuto e di conoscere a fondo questo Paese. Nella introduzione al libro che raccoglie i discorsi più indicativi di Obama (Yes we can, Donzelli Editore), scrive ancora: Obama vuole un’America più forte, non più debole: ma sa che per rendere efficace la propria forza il Paese deve puntare sul fascino connaturato agli ideali della sua democrazia, non sul terrore che incute per la propria capacità distruttiva. Il neo-eletto presidente Barack Obama eredita un Paese che ha vissuto nella paura indotta dall’11 settembre, stanco di una guerra infarcita di menzogne, ed è diviso da una profonda contrapposizione frontale e pregiudiziale tra i due partiti. Il richiamo all’unità, che Obama ha fatto più volte durante la sua campagna e nel discorso della sua vittoria, non è un esercizio di pura retorica, ma esprime un’esigenza profonda di questo Paese. Nel suo libro L’Audacia della speranza, riflettendo sulla sua esperienza politica, Obama scrive: Dovremo ricordare a noi stessi, al di la delle nostre differenze, quanto abbiamo in comune: speranze in comune, sogni in comune, un legame che non si spezzerà. Considerata la profonda crisi nella quale si trovano gli Stati Uniti e il mondo, molti sperano che Obama sia un nuovo Franklyn Delano Roosevelt, che ha salvato le sorti di questo Paese dopo la crisi del 1929. Molti analisti hanno rilevato la novità di Barack Obama nel suo nome buffo, come lui stesso lo ha definito, nel colore della sua pelle, nell’originalità della sua biografia. Ma Obama sarà un grande presidente e passerà alla storia, se sarà capace di coniugare con saggezza, idealismo e pragmatismo, intelligenza e cuore, recuperando il senso ed il valore della politica, rinnovandola. ATTESO ALLA PROVA DEI FATTI Nei primi passi da presidente eletto, Obama si sta muovendo con circospezione e finora non ha commesso grosse gaffe. Egli stesso ci tiene a dire che c’è un solo presidente: fino al 20 gennaio la responsabilità della prima potenza mondiale è ancora nelle mani di George W. Bush. Certo, tutti stanno cercando di tirargli la giacchetta, di spingerlo a prendere determinate posizioni, favorire certe lobby, sposare certe teorie economiche o politiche. È normale. Ma saranno poi i fatti a giudicarlo: se è vero che ha saputo accendere entusiasmi da tempo dimenticati, è più vero che è atteso al varco. Non solo sugli aiuti all’economia, sulla scelta di un mondo multipolare, sul suo ambientalismo, ma anche su problemi morali quali aborto, eutanasia e bioetica. Saprà umanizzare le nostre società, difendere cioè l’uomo e la sua dignità dall’inizio alla fine della sua vita? Ovviamente, non solo all’inizio e alla fine. l mondo di Obama Quali saranno le mosse del nuovo presidente statunitense sullo scenario internazionale? In ogni caso la visione del pianeta sarà interdipendente.Y La sicurezza e il benessere di ogni americano dipendono dalla sicurezza e dal benessere di coloro che vivono fuori dalla nostre frontiere. Con questa semplice constatazione, quasi banale se non fosse che giunge dopo anni di esagerazioni unilaterali, il neopresidente eletto degli Stati Uniti propone un riequilibrio sostanziale della politica estera americana. L’idea che Obama pone alla base del suo programma per le relazioni internazionali è che l’America non può affrontare da sola le minacce di questo secolo e il mondo non le può affrontare senza l’America. Si direbbe una sorta di Dichiarazione di interdipendenza, per usare la felice espressione del politologo americano Benjamin Barber. Su tutti i principali problemi dello scenario internazionale, l’obiettivo di Obama è ricostruire un ruolo guida degli Stati Uniti, ma a partire dalla condivisione degli obiettivi e dei metodi, a partire dall’esempio, e non sulla base di prio rità stabilite a Washington e poi presentate al resto del mondo con la logica del prendere o lasciare. Per il nuovo presidente, è la diplomazia, è la politica che deve essere al centro dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti, utilizzando – e non scalzando – le istituzioni multilaterali come l’Onu. Le Nazioni Unite non saranno perfette, ma non possono certo essere accantonate come ha fatto in momenti cruciali l’amministrazione Bush (per l’Iraq, ad esempio) o come il candidato McCain (peraltro assai ponderato in materia di politica estera) si proponeva di fare creando una organizzazione parallela, con regole incerte, come la Lega delle democrazie. Intendiamoci, Obama non esclude l’uso della forza per la soluzione delle crisi internazionali, ma certamente non come alternativa alla diplomazia e non al di fuori delle regole multilaterali. Il nuovo presidente raccoglie la drammatica eredità di due guerre in cui l’America è impegnata, in Iraq e in Afghanistan. La sua opposizione all’intervento militare in Iraq risale al 2002, ma Obama guiderà il disimpegno delle truppe americane in modo ordinato e senza fughe in avanti che possano pregiudicare la fragile situazione del Paese tra i due fiumi. Per l’Afghanistan, è abbastanza semplicistico far credere che Obama chiederà semplicemente più soldati per sconfiggere i talebani. Per trovare una via d’uscita, occorre riformulare l’intera strategia della comunità internazionale in Afghanistan, precisando anzitutto gli obiettivi politici, affinando i termini di un intervento che, per avere successo, deve contare sul sostegno convinto della popolazione afghana e non, riduttivamente, sulle incursioni militari. In sintesi, più idee, non solo muscoli. Nell’area mediorientale, Obama dovrà affrontare il delicatissimo tema del programma nucleare iraniano. Anche in questo caso, la strada che Obama indica è quella della diplomazia, che non significa certo accondiscendenza. Un Iran dotato di armi nucleari è una prospettiva inaccettabile, ed è un incubo per l’intera regione. Il neoeletto presidente è a favore di un negoziato con Teheran senza precondizioni, ma prospetta anche misure di isolamento politico ed economico dell’Iran se non riscontrerà la volontà di giungere ad una soluzione di compromesso. Ma l’obiettivo caratterizzante della politica estera di Obama consisterà nell’impresa, non certo facile, di ricostruire intorno all’America quel clima di fiducia che soprattutto la guerra in Iraq e la politica della esportazione della democrazia ha vanificato in molte parti del mondo, a cominciare dai Paesi arabi. Un modo per ricomporre questo rapporto incrinato consiste nel dare subito priorità alla soluzione del conflitto israelopalestinese. Ci aveva provato anche Bush, ma tardivamente e senza incisività. Ora Obama si ripromette di spendere il suo impegno personale, fin dall’inizio, per raggiungere l’obiettivo, troppo lungamente atteso, di due Stati (Israele e Palestina) che vivano fianco a fianco in pace e in sicurezza.