Obama chiama alla giustizia sociale

Come ogni anno, a gennaio il presidente degli Stati Uniti tiene un famoso discorso sullo “Stato dell’Unione”. Intervista con Paolo Magri (Ispi)
Obama

È l’occasione privilegiata in cui il capo della Casa Bianca è solito fare il punto della situazione del Paese, sia in materia di politica interna che estera. Ne parliamo con Paolo Magri, esperto di politica internazionale e direttore dell’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano.

 

La sottolineatura del presidente Barack Obama che gli Usa sarebbero un Paese più giusto richiama un tema prettamente interno.

«Ed è un discorso interessante per noi italiani perché, proprio nel giorno in cui l’Ocse ha annoverato il nostro Paese tra quelli con la maggiore divaricazione tra ricchi e poveri in questi ultimi anni, abbiamo ascoltato il presidente Obama mettere al centro del suo ultimo anno di mandato di presidenza il tema dell’equità, della fearness. Chi si aspettava un discorso che desse qualche indicazione sulla strategia statunitense nel mondo rispetto all’Iran, alla Siria, all’Europa in crisi, all’Asia che cresce, è rimasto senz’altro deluso, visto che, invece, si è concentrato sulle questioni interne e quelle economiche».

 

Un discorso di matrice elettorale?  

«Anche l’anno scorso Obama tenne un discorso sullo stato dell’Unione centrato su questioni interne, quando usò per 25 volte la parola job (lavoro). Dunque è stata un’apertura forte della sua campagna elettorale. E l’ha fatto abbordando un tema caro al ceto medio, quello della crescente disuguaglianza e delle poche tasse pagate dai ricchi. Inoltre aveva al suo fianco Debbie Bosanek, la segretaria del miliardario Warren Buffet, divenuta famosa quando il suo datore di lavoro definì ingiusta una società dove lui paga percentualmente meno tasse della sua impiegata.

Obama non ha lanciato un piano realistico per aumentare le tasse ai ricchi, perché con la maggioranza repubblicana alla Camera le possibilità di farlo sono minime. Ha puntato piuttosto alle presidenziali, dicendo al ceto medio che se queste tasse non aumenteranno non sarà colpa sua, ma di coloro che vi si opporranno.

E soprattutto ha sferrato un attacco contro Mitt Romney cercando di indebolirlo riferendosi alle poche tasse pagate dai ricchi e specificamente da questo suo oppositore, e le evasioni nei paradisi fiscali, proprio mentre sta montando la polemica su questi temi. Obama sicuramente preferisce affrontare a novembre Newt Gingrich piuttosto che Romney, dato che quest’ultimo è considerato più forte dai sondaggi. Cerca quindi di dividere i repubblicani facendo emergere le loro contraddizioni interne».

 

Uno scoglio importante per la rielezione sono i repubblicani, che hanno anche un forte peso sull’apparato militare e industriale.

«Sicuramente il budget della difesa statunitense ha avuto strenui sostenitori più in ambito repubblicano che in ambito democratico. Ma è anche vero che negli ultimi mesi e in questa campagna ci sono state anche all’interno dei repubblicani, nella parte più isolazionista, richieste di tagli alla spesa militare, che sono insolite in questa parte politica.

I repubblicani sono divisi su alcuni temi come non lo sono mai stati in passato: c’è chi difende le tasse ai ricchi, chi si oppone, chi propone tagli alle difesa… Obama sta facendo leva su queste divisioni interne sapendo che possono favorirlo nella campagna per la sua rielezione».

 

L’ingiustizia sociale è un fatto evidente: il 2 per cento degli abitanti ha in mano il 25 per cento del Pil statunitense. Obama ha parlato anche dei paradisi fiscali, ma dovrebbe tener conto che i primi paradisi fiscali del pianeta sono Stati come il Wyoming, il Delaware e il Nevada…

«Per un ricco il primo paradiso fiscale sono effettivamente gli stessi Stati Uniti. Se legalmente persone con patrimoni di miliardi di dollari come Buffet possono pagare una aliquota complessiva pari al 17 per cento, il bisogno di spostarsi in altri paradisi tutto sommato si riduce. Questo delle tasse basse imposte alla parte ricca della popolazione è un eredità del governo Bush, tuttora fortemente sostenuta da buona parte dell’establishment repubblicano che ha il controllo della Camera».

 

Ha chance concrete di rielezione Obama, un presidente che non è riuscito a realizzare molte delle proposte formulate nella sua campagna elettorale?

«Obama si è presentato quattro anni fa come il candidato del cambiamento e della speranza. Di speranza oggi se ne vede in realtà poca nel ceto medio statunitense, tanto che i cambiamenti più evidenti che rischiano di essere legati alla sua eredità sono la disoccupazione che cresce, il deficit fiscale triplicato e il debito pubblico che arriva al cento per cento del Pil. Proprio per questo, anziché giocare in difesa Obama va all’attacco, cercando di dividere il campo avversario.

Attualmente i sondaggi danno in sostanziale pareggio una candidatura Romney e una candidatura Obama. Mancano però ancora dei mesi, e dunque i sondaggi appaiono poco indicativi. Possiamo però dire che la non rielezione di un presidente eletto negli Stati Uniti è un evento abbastanza eccezionale, almeno negli ultimi decenni – vedi il caso di Reagan, Clinton e Bush figlio –; quindi nonostante alcune défaillance, prima di dare per scontata la sconfitta di Obama credo che dovremo essere molto cauti».

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